Secondo i cultori dell’ipotesi extraterrestre, l’umanità sarebbe mera conseguenza di uno sconosciuto esperimento interstellare. Il frutto derivante dal passaggio delle Ere, di una mera semina sopra un terreno fertile, tra il suolo e l’atmosfera di questo pianeta, al fine di osservare i nostri metodi e comportamenti evolutivi. Davvero improbabile, non sembra anche a voi? In che modo tali esseri a noi superiori, e soprattutto per quale ragione, avrebbero dovuto prendersi la briga di affrontare tutto questo… Ed lo stesso quesito che in ultima analisi, in presenza di una tale inclinazione, avrebbero potuto porsi gli abitanti con le corna di un luogo remoto degli Oceani a noi ragionevolmente conosciuti. Benché un tale sito emerso sia per ovvie ragioni una scoperta piuttosto recente, non antecedente al 1778 quando il tenente Synd della Marina Militare Russa scorse, durante i suoi viaggi nell’Artico, un luogo dove non avrebbe dovuto essenzialmente esisterne alcuno; nel punto mediano tra le coste dell’Alaska e quelle della Siberia orientale, 300 Km ad ovest dell’isola di Nunivak, 370 a sud di St. Lawrence e 425 a nord dell’arcipelago di Pribilof. E a molti giorni di navigazione, dal più vicino luogo abitato dagli umani, che del resto non avrebbero avuto alcuna ragione di recarsi fino a quella sottile striscia lunga 51 Km e con un’elevazione massima di 449 metri. Fatta eccezione per un piccolo avamposto sperimentale della Compagnia russo-americana, che ebbe breve vita a seguito del 1809, e dopo allora fino al cambiamento della situazione in essere, causa l’avanzamento progressivo della tecnologia. Fast-forward verso l’epoca della seconda guerra mondiale: per l’esigenza di disporre di un sistema di radionavigazione del tipo LORAN, con tanto di antenna svettante sopra le distese prive d’alberi di un tale sito distante, un gruppo di 10 addetti dalle forze armate statunitensi sbarcano presso le spiagge di quella che era stata battezzata, già da tempo ormai, l’isola di San Matthew. Soldati scelti non per la loro abilità, addestramento ed elevato morale, bensì per la resilienza necessaria a sopravvivere in totale solitudine presso uno dei confini più remoti della Terra. E accompagnati, come fune di salvataggio, da uno speciale quanto raro tipo di assicurazione: la chiatta contenente un numero di esattamente 29 renne, prelevate direttamente dall’isola di Nunivak.
Ora, il piano non aveva evidenti punti deboli: dopo tutto nonostante l’assenza di alberi, la distante San Matteo/Matthew poteva fare affidamento su un aspetto alquanto verdeggiante nonché rigoglioso, in parte anche dovuto a una straordinaria biodiversità di muschi e licheni, con quasi 150 specie vegetali costantemente intente a replicar se stesse, offrendo una potenziale fonte di cibo per gli erbivori almeno in apparenza sostenibile ad infinitum. Ma non creature onnivore come i loro traghettatori e nuovi proprietari, che avrebbero così potuto per gli anni a venire fare affidamento sulla dispensa quadrupede perfettamente affine al gusto estetico di Babbo Natale. Una spada di Damocle destinata a pendere sulle povere creature ungulate almeno fino al 1944, verso la fine della seconda guerra mondiale, quando la stazione LORAN fu giudicata non più necessaria e quindi abbandonata al suo destino. Esattamente come le renne provenienti dalle terre d’Occidente, di cui in ultima analisi, neppure una era stata uccisa per supplire a una mancanza di derrate. Se questo fosse un semplice racconto sull’interdipendenza delle specie e l’inadeguatezza di quest’ultime a nuove condizioni dell’esistenza, saremmo già giunti al triste epilogo di una vicenda senza conseguenze realmente degne di nota. Ma poiché la vita non è niente, se non adattabile e potentemente intenzionata a ricercare la prosperità futura, nulla a questo punto avrebbe mai potuto più frapporsi tra le renne e il loro ultimo obiettivo, i licheni. Così in assenza dell’unico (potenziale) predatore, l’invadente bipede armato di fucile mitragliatore, esse iniziarono a moltiplicarsi a una velocità inaspettata. Seguono anni di silenzio, in assenza di ragioni per recarsi fin quassù, finché nel 1957, esattamente 13 anni dopo che occhi umani si erano posati per l’ultima volta in questo luogo, il biologo statunitense Dave Klein non sbarcò sulle gelide spiagge assieme al suo assistente Jim Whisenhant. Permettendo ai due, una volta completate le operazioni di sbarco, d’iniziare il processo che li avrebbe portati a contare, nei giorni a venire, una quantità approssimativa di 1.300 simili di Rudolph, l’apripista di Natale. E ciò sarebbe stato, a conti fatti, null’altro che l’inizio del panico a venire…
Immaginate a tal proposito un macigno perfettamente tondeggiante, che qualcuno abbia trasportato fin sopra il declivio di un’alta collina. Di per se stessa, causa l’inclinazione favorevole del fato, totalmente priva di asperità o di ostacoli fino alla valle antistante. Che cosa dovremmo aspettarci dal pesante orpello, a questo punto, di diverso dal raggiungimento del suo ultimo obiettivo gravitazionale?
Una volta completata la spedizione, mirata all’acquisizione di dati sulla variegata situazione faunistica dell’isola, che includeva numerose specie d’uccelli migratori ed anche altri mammiferi, tra cui i più grandi erano la volpe artica ed arvicole simili a dei pika, Klein salì nuovamente a bordo dell’imbarcazione col suo seguito, facendo il necessario ritorno alla civiltà. Passa senza nessun tipo di eventi, a questo punto, un intero periodo di ulteriori 6 anni, per un totale di 19 dall’abbandono umano dell’isola di San Matteo. Quando finalmente il naturalista, ora uno stimato professore presso il Fairbanks Institute di Biologia artica dell’Università dell’Alaska, trova il tempo e l’occasione di fare ritorno presso questo luogo oltre i confini del mondo stesso. Per trovarsi ad annotare, sul suo incredulo taccuino, una situazione che potremmo definire in bilico sul ciglio dell’Apocalisse finale. Klein scopre infatti la presenza complessiva di oltre 6.000 renne, per una densità stimata di 47 al miglio quadro. I licheni della tundra, perfettamente adattati al proprio clima d’appartenenza, avevano reagito bene alla consumazione insostenibile di un tale assedio, incrementando in modo esponenziale il proprio intento riproduttivo. Ciononostante, dal punto di vista del futuro di una situazione tanto estrema, nessuno avrebbe saputo realmente pronunciarsi sul suo futuro prossimo, men che meno l’ipotesi di una continuativa sussistenza. Di nuovo gli scienziati lasciarono questi luoghi, per un tempo, tuttavia, dalla durata inferiore. Qualcuno avrebbe potuto a questo punto ritenere, non del tutto senza una ragione, che un certo biologo dell’Università si fosse appassionato alla questione e fu così che Klein, ancora una volta, fece ritorno all’isola oggetto di quell’imprevista sovrappopolazione. Erano trascorsi, questa volta, soltanto tre anni ma per l’effetto che avevano avuto, avrebbe potuto trattarsi di un’eternità. Scheletri di renna dominavano il paesaggio, mentre soltanto 42 esemplari restavano in bilico su zampe malferme, di cui 41 femmine ed un maschio dalle corna sbilenche, probabilmente frutto di un accoppiamento tra consanguinei e proprio per questo, incapace di riprodursi. I licheni invece, tutto considerato, stavano piuttosto bene, così come gli uccelli, le volpi, le arvicole e tutto il resto.
Che cosa aveva ucciso, dunque, le 6.000 renne dell’isola di San Matteo? Diversi specialisti s’interrogarono sulla questione, senza mai giungere a una conclusione soddisfacente, almeno finché i climatologi Martha Shulski e John Walsh non vennero coinvolti nella ricerca, direttamente dall’iniziatore della stessa presso l’Istituto Artico di Fairbanks. Attraverso la raccolta e l’analisi dei dati a disposizione, quindi, il team arrivò alla presa di coscienza di una situazione precedentemente insospettata. Fronti d’aria gelida si erano infatti concentrati nell’inverno tra il 1963 e 64 proprio sopra il Paradiso irraggiungibile dei cervidi settentrionali, con una pressione atmosferica paragonabile a quella di un uragano di categoria 3. Le temperature toccarono brevemente i -57 gradi Celsius per poi assestarsi attorno ai -40, mentre i venti soffiavano insistentemente fino alla velocità di 38 Km/h. Assediate dal terrificante gelo dell’inverno, come tanto spesso capitava anche alle loro cugine dell’isola di Nunivak, le povere renne fecero del loro meglio per riuscire a consumare una ragionevole quantità di licheni. Ma erano semplicemente troppe, soprattutto con buona parte dei loro originali pascoli semi-rocciosi sepolti sotto la neve, per riuscire nell’impossibile impresa. E l’epilogo di una simile storia, ahimé, già lo abbiamo conosciuto.
Almeno un paio d’importanti lezioni possono essere tratte dalla tragica vicenda delle renne dell’isola di San Matteo; non il tipo di vicenda, immagino, che piacerebbe particolarmente ai fautori di una particolare politica e visione positivista per l’avvenire. Tanto per cominciare, la riconferma pratica e chiaramente comprensibile, un po’ come nella novella oggettivista della Fattoria degli Animali, delle teorie economiche di Thomas Malthus. Secondo cui una crescita esponenziale della popolazione, senza l’equivalente aumento matematico delle risorse disponibili, non può che portare alla povertà ed in conseguenza di questa, successivamente, la rovina.
Ed a seguire di questo, l’importanza fondamentale di disporre di una possibile via d’uscita. Il cosiddetto “piano B” Poiché anche se le cose sembrano andare per il meglio, può bastare l’insorgere di una situazione dalle origini per così dire naturali e totalmente inaspettate, per cambiare istantaneamente la posta in gioco. Eventi che potremmo identificare come improvvise variazioni del clima, se fossimo delle renne. O nel nostro più sofisticato e reattivo caso di esseri umani, anche l’insorgere improvviso di una pandemia. Tutte le isole, dopo tutto, hanno una quantità finita di tesori. Non tutti dei quali, risultano accessibili con semplici vanghe sotto il segno del pirata. A volte occorre scavare ancor più a fondo, per immaginar l’inevitabile portata della verità.