È tutto ciò che abbiamo, dopo tutto: quando lo sguardo del puma si rivolge nella nostra direzione, quando l’aquila si staglia minacciosa contro il cielo, quando lupi, orsi o ghiottoni/volverine si avvicinano con fare minaccioso al gregge, sceso periodicamente a valle per cercare cibo o sali minerali dagli affioramenti invisibili del sottosuolo. Sto belando, chiaramente, della nostra forza muscolare, l’agilità frutto di un acuto perfezionamento e i geni ereditari di una qualità particolare. Noi che siamo, nella lingua dei latini (che mai vissero da queste parti) Oreamnos americanus, esseri cornuti, canuti e giustamente saggi, come può essere desunto facilmente dalla lunga ed appuntita barba. Per non parlare dell’aspetto evanescente, che ci rende vagamente simili a creature di cui parlano le antiche leggende. Quelle dei popoli Salish, la confederazione dei nativi che un tempo dominavano le vaste terre dalla Columbia Inglese in Canada, fino alla parte settentrionale della California, intessendo coperte ed abiti coi nostri bianchi peli, abbandonati quasi ovunque a seguito dell’essenziale muta primaverile. Un aspetto all’origine, allo stesso modo, di un importante fraintendimento da parte dei primi coloni provenienti dalla parte orientale del continente: che noi fossimo la stessa cosa di un distinto tipo d’animale, a loro noto in quanto mansueto abitatore domestico delle fattorie di pianura. O almeno questo è quello che ci ha raccontato, fin da quel momento in cui venimmo in contatto, la marmotta dal ventre giallo, unico altro mammifero di dimensioni significative che riesce a sopportare le gelide temperature, e gli agguerriti venti, di un ambiente remoto ed elevato come la nostra terra elettiva: “Capre, capre e capre chiamano costoro. Identici a voialtri nella forma eppur di multipli colori: nere, marroni e a macchie, addirittura. Con le corna di diverso aspetto e proporzioni…. ” E hai detto nulla, astuto roditore! Avremmo avuto modo di rispondergli, volendo. “Mai sentito nominare il concetto di convergenza evolutiva?” Il problema è che nel regno degli umani, perché un mezzo di ragionamento possa essere integrato nella conoscenza, occorrono molti anni di profonda introspezione ed approfondimento. Così prima che riconoscessero l’errore chiaro fin da subito, dal punto di vista delle dirette interessate, ci volle un tempo superiore all’inserimento dell’errato nome nelle cognizioni collettive della gente. E “capra di montagna” diventammo. Pur essendo membri di una discendenza parallela eppur fondamentalmente distinta. Così tramandata, dalle sacre pergamene cognitive dell’antico clan, benché nessuna di noi sappia associare un effettivo volto ai rilevanti nomi: “Oreamnos (letteralmente: agnello di montagna) nasce dalla stessa linea di sangue delle “capre” takin e tahr Himalayane, essendosi differenziato dall’antenato comune a tali popolazioni solamente tra i 7,5 e gli 8 milioni di anni fa.” Quando i ghiacci che facevano da ponte tra i distinti continenti, a causa di un processo geo-climatico che prosegue tutt’ora, lasciarono spazio all’invalicabile e splendente oceano. Che talvolta ancora riusciamo a scorgere, mentre i nostri sguardi seguono la direzione del tramonto dalla cima degli alti picchi montani…
Bestie nobili e venute da lontano sono, dunque, le candide capre di montagna, nonostante spesso le persone tendano a dimenticarlo. Nonché una vista piuttosto comune, all’interno del loro areale invidiabilmente esteso. Permettendo di desumere una valida capacità d’adattamento, tale da garantirgli la prosperità persino oggi, anche grazie alla difficoltà di andare a caccia a simili altitudini straordinariamente remote. Tanto che, a partire dai primi del ‘900, gli sforzi per propagare questo notevole animale anche a zone dove non era nativo ha causato significativi problemi negli stati limitrofi, come il Colorado, dove il foraggiamento della specie ha messo in pericolo la continuativa sopravvivenza di alcune specie vegetali rare. Verso l’inattesa quanto necessaria attuazione, in luoghi come il parco nazionale di Olympic, di un esteso programma di ricollocamento ulteriore, finalizzato a riportare allo stato di grazia le alte vette silenziose. L’Oreamnos, d’altra parte, non è certo un animale migratorio anche considerato l’impressionante dispendio d’energie necessario per cambiare elevazione verticale presso l’habitat dove trascorre le stagioni, ove qualche decina di chilometri, al massimo, rappresenta l’intero tragitto affrontato nel corso di un’intera vita, per sfruttare pascoli con diversi periodi annuali di crescita e fioritura. Spostamento che può essere affrontato solo grazie alla succitata prestanza fisica e i particolari zoccoli biforcuti, dalla larga superficie quasi prensile e i ruvidi polpastrelli, capaci di massimizzare la capacità di fare presa su una vasta serie di superfici. Così che diventa una visione piuttosto memorabile, ma non particolarmente rara, quella della madre con il singolo cucciolo che discendono danzando e giocando dalla cima della montagna, mentre quest’ultimo riceve come insegnamento i corretti metodi per affrontare una simile ardua trasferta. Per quanto concerne la riproduzione, infatti, questi bovidi del Nuovo Mondo hanno l’abitudine d’investire tutte le loro risorse in un singolo erede, nato generalmente a seguito di un’ardua quanto sofferta selezione del partner che comincia con lo scavo di una “buca dell’amore” nel fianco della montagna e da lì prosegue, nel tentativo di restare i soli possibili dominatori. Questo per l’abitudine, da parte dei maschi adulti della specie, a combattere crudelmente tra loro nei momenti meno prevedibili, mediante un approccio che, a differenza della capra europea, prevede una serie di colpi vibrati con le aguzze corna contro il fianco del nemico, talvolta con conseguenze potenzialmente letali. Simili creature possono raggiungere d’altronde un peso di fino a 130 Kg, paragonabile a quello di una feroce bestia della savana, ma in un territorio molto precario, dove un attimo di distrazione può costare la vita. Ecco perché nel codice di convivenza della capra, fin da tempo immemore, esistono segnali chiari di resa, che includono sdraiarsi per terra e abbassare la testa, finalizzati ad impedire che i confronti raggiungano la loro irrimediabile fase finale. Successivamente all’accoppiamento, e una gestazione della durata approssimativa di sei mesi, il piccolo vive con la madre per un periodo di almeno un anno (o fino alla nascita di un fratellino la stagione ancora successiva) formando assieme alle altre coppie di figlioli e genitrici dei gruppi di fino a 50 animali. Mentre i maschi tornano a pascolare lontano dalla massa, aggregandosi la massimo tra 5 o 6 esemplari, possibilmente privi dell’istinto omicida reciproco dimostrato durante la stagione degli amori.
Evitato quel pericolo, assieme a quello di finire in pasto ad una delle succitate specie predatrici, l’Oreamnos vive allo stato selvatico fino all’età di 12-15 anni, benché i risultati ottenuti con esemplari tenuti in cattività abbiano dimostrato come il decesso in natura sopraggiunga unicamente per l’incapacità di nutrirsi causa l’eccessivo consumo dei denti, fattore eliminato il quale, l’animale può agevolmente raggiungere anche i 20 anni di età.
Perciò alla fine, fummo noi a perdonarvi, per prime. Anche se insistete a chiamarci con il nome sbagliato, turisti fuori luogo e ricoperti di pelli e pelo artificiali, che nonostante tutto… Siete pronti a spingervi fin quassù. E tenendovi a una rispettosa distanza cautelativa, come da preciso codice normativo dei vostri cosiddetti parchi nazionali, continuate a darci illegalmente da mangiare, motivando le pericolose spedizioni sulle strade asfaltate che circondano gli elevati territori. Ove corrono quegli strani veicoli, la cui parte inferiore tanto spesso attira l’attenzione delle nostre lunghe lingue, causa la presenza di copiosi depositi di sale. E se occasionalmente, nelle zone geografiche in cui siamo oggettivamente troppe, i cacciatori vengano autorizzati a farci fuori un po’ alla volta, allor sappiate che l’accordo implicito potrà anche essere venuto meno. E qualche volta, come già avvenuto almeno in un caso documentato nel 2011, l’escursionista solitario conoscerà l’esperienza sanguinaria delle nostre spietate corna. Poiché l’ordine naturale vuole che la capra sia posizionata sotto la panca, giusto? Ma per l’ultima volta e citando una famosa frase, io NON SONO una capra!