Chi ha molto dire o fare, fieramente avanzi fino a un luogo elevato: lo stesso che occupa l’antica statua equestre di Marco Aurelio, lungamente esposta in Laterano a partire dall’VIII secolo, dopo aver occupato numerosi altri luoghi per oltre un millennio, nei diversi quartieri della città di Roma. Un destino che, molto probabilmente, non potrà mai toccare alla scultura concettualmente simile che oggi campeggia nel centro della piazza del Senato a San Pietroburgo, la città costruita per la volontà di un successivo Cesare ed a lui dedicata, tanto distante nel corso serpeggiante dei secoli da essersi trovato attribuito una versione traslitterata dello stesso appellativo: zar. Questo poiché uomo e cavallo, costruiti nello stesso materiale bronzeo, costituiscono un tutt’uno inscindibile anche con l’orpello inamovibile per definizione. Quel macigno dal peso impressionante di oltre 1500 tonnellate, costituente il piedistallo alto 7 metri da cui campeggiano, a loro volta, gli ulteriori 6 della statua del sovrano. Uno di quei lavori tanto eccezionali da trovarsi normalmente avvolti dalle nebbie tenebrose del mistero, se non fosse come nel presente caso possieda, nei fatti, un preciso contesto socio-politico e una data; quelli in cui la neo-imperatrice Caterina II, 3 anni dopo aver assunto il potere nel 1762 con il colpo di stato che aveva guidato contro il marito e sovrano Pietro III, trovò un modo potenzialmente funzionale a legittimare la sua presa salda sui sistemi di potere della nazione. Scegliendo di farlo, tra i diversi approcci a sua disposizione, proprio costruendo un monumento che potesse attraversare integro il passaggio delle Ere, indicando nel contempo a tutti chi sarebbe stato l’illuminato ispiratore del suo buon governo futuro. Così che per farlo, fece venire fino alla sua capitale la figura a volte controversa del celebrato scultore francese Étienne Maurice Falconet, ma si preoccupò anche di far disporre un “qualcosa” che potesse rendere la sua opera davvero immortale. L’oggetto fuori dal contesto era chiamato “pietra del fulmine” a causa della spaccatura nella sua parte superiore, che si riteneva fosse venuta a crearsi per l’impatto di una scarica elettrica durante un temporale. Una letterale piccola montagna di granito di Rapakivi, situata verso il golfo di Finlandia nella zona fuori dalle mura di Lakhta, del tipo che normalmente veniva fatto a pezzi per costruire i fregi e gli ornamenti di un’intera dimora signorile, se non che la prestigiosa erede del potere temporale russo aveva piani ben diversi per questo ponderoso dono della natura: “Prendetelo e spostatelo, così com’è. Sia questo il piedistallo della nostra opera immortale.” Ci sarebbe voluto del tempo, ovviamente. E fu proprio tale scelta la principale ragione per cui ben 14 estati sarebbero state necessarie, affinché la statua equestre dell’insigne predecessore trovasse finalmente posto al centro dello spazio che era stato riservato alla sua regale imponenza. Ma l’imperatrice sapeva circondarsi di sapienti consiglieri e fu così che in quel particolare frangente poté contare sull’ingegno del tenente colonnello dell’Esercito Russo originario dell’isola di Cefalonia, Marinos Carburis. Il quale sviluppando un particolare metodo per sollevare la pietra dalla nuda terra della patria d’adozione, diede l’ordine di muoverla in inverno, sfruttando l’inerente scivolosità del ghiaccio e della neve, in aggiunta alla sua specifica invenzione di una slitta di metallo sostenuta da una sorta di rudimentali cuscinetti a sfera. Per poi caricarla su una chiatta, sostenuta a sua volta da due navi da guerra, per compiere il tragitto fino all’iconica foce del fiume Neva. Espedienti tanto validi, e risolutivi, che l’impresa poté essere compiuta con il solo uso di argani e la dedizione di parecchie centinaia di uomini, senza far ricorso all’energia potenzialmente fornita da povere creature bovine o altri animali, sottomessi al pesante giogo di una simile ambizione. Quella di una città intera, che ormai tratteneva il fiato per vedere l’opera compiuta. Era già il 1775, quindi, quando la produzione della statua entrò nel suo momento più delicato…
Lo scultore Falconet assieme alla sua figlia adottiva ed apprendista Marie-Anne Collot, a questo punto, erano già stati coinvolti più volte nella grande opera dello spostamento della pietra, durante cui lui si erano occupati assieme agli aiutanti di plasmare e ridurre le dimensioni del futuro piedistallo pietrosa. Tutto ciò avendo la necessaria cura di mantenere integra per quanto possibile, come richiesto dalla committente, la notevole imponenza naturale del ponderoso orpello. Esattamente 10 anni dopo l’inizio di un simile progetto, tuttavia, era giunto il momento in cui i numerosi disegni preparatori ed il modello di gesso in scala della statua avrebbero assunto proporzioni durature, mediante l’effettiva opera di fusione all’interno delle officine imperiali. Lo zar Pietro il Grande, nella sua rappresentazione vista da occhi francesi, sarebbe comparso in sella al suo destriero, con la spada al fianco ma del tutto privo di armatura esattamente come la statua di Marco Aurelio, mentre l’animale schiacciava sotto uno zoccolo un malefico serpente. Creatura rappresentante a seconda delle interpretazioni i suoi molti nemici personali, la “vecchia Russia” ostile alle riforme o gli oppositori stranieri all’espansione del nuovo possente impero. Tra il dire e il fare, ad ogni modo, c’è di mezzo il mare ovvero in questo caso, l’enorme quantità di metallo fuso che secondo quanto viene raccontato, avrebbe tracimato dal crogiolo nel momento saliente dell’operazione, minacciando la distruzione ed ulteriore ritardo nella messa in opera della scultura, se non fosse stato per l’eroico rischio corso dal maestro della forgia Emelyan Khailov, che rischiando la sua stessa vita riuscì a mettere in salvo la statua. Esteriormente naturalistica e con un’espressione serena ma risoluta, secondo quanto disegnato in modo originale dalla stessa Collot, mentre sappiamo per certo che almeno una delle mani del gigante bronzeo venne realizzata come copia di quella ritrovata nel 1771 durante gli scavi archeologici di Voorburg, probabilmente parte di una statua di epoca romana. L’attesa inaugurazione, infine, sarebbe giunta il 7 agosto del 1782, durante una scenografica cerimonia in pieno stile barocco, coronata dalla comparsa del monumento magicamente “scoperto” all’apertura di una gigantesca scatola, tra i fumi pirotecnici e le acclamazioni di migliaia di nobili e dignitari di corte. Il popolo, dopo tutto, poteva certamente aspettare.
La statua divenne a questo celebre col nome iscritto sul suo stesso basamento in trascrizione russa dal latino “Petro Primo” (a capo) Catharina Secunda MDCCLXXXII” almeno fino alla sua comparsa da protagonista, nel 1833, in uno dei più importanti componimenti in versi nell’intera storia della letteratura di quel paese. Il poema di Aleksandr Pushkin intitolato, per l’appunto, “Il cavaliere di bronzo” in cui si narra della sfortunata vicenda del nobile decaduto Evgenij, che si guadagnava da vivere svolgendo le mansioni di un umile impiegato statale almeno finché la disastrosa alluvione del 1824, l’ultima delle molte che avevano colpito la capitale russa nel corso della sua secolare storia, avrebbe distrutto la sua casa ed ucciso l’amata moglie, con cui aveva progettato di mettere su famiglia nei molti lieti anni a venire. Maledicendo quindi la statua del potente che aveva scelto di comandare il suo regno dal territorio di una pianura alluvionale, mentre progressivamente perde la ragione, l’uomo finisce per precipitare verso la condizione di un povero vagabondo, fino alla scena culmine in cui una versione onirica dello zar di bronzo a cavallo, animandosi magicamente, lo insegue per le strade della città in rovina. Un’esperienza destinata a ripetersi più volte nel corso della sua vita, destinata a terminare prematuramente causa annegamento del fiume Neva, implicitamente dovuto all’effettiva intenzione di suicidarsi.
Disperazione di un’irrimediabile destino, quindi, e disparità tra il popolo ed i loro governanti sono i temi principali del poema, al punto che l’opera di Pushkin venne censurata all’epoca della prima pubblicazione durante il regno dell’imperatore Nicola I, con la rimozione e l’alterazione di alcuni versi chiave, benché l’eccezionale qualità letteraria fosse valsa nondimeno all’ampia tiratura ricevuta nell’intero territorio europeo. Significativo, a tal proposito, è il fatto che lo stesso Falconet non fosse stato affatto presente all’inaugurazione della statua che aveva tanto faticosamente creato, causa la necessità di una rapida fuga, dopo aver offeso in qualche modo poco chiaro l’imperatrice.
Chi potrebbe, in conclusione, dire di comprendere realmente quale sia il messaggio della statua di Pietro il Grande? Come nel caso del Marco Aurelio, che sappiamo essere stato studiato a lungo dallo scultore e teorico francese prima del suo lungo soggiorno in Russia, è possibile che la sua mano sollevata costituisca un gesto di minaccia ma anche di clemenza, l’offerta di una mano tesa al popolo in disperata attesa o persino una silenziosa ed eterna richiesta d’aiuto.
Chiarisce in parte la faccenda la leggenda popolare secondo cui lo zar, in groppa al suo splendido equino, avesse l’abitudine di superare con un balzo l’intero corso del fiume Neva (niente d’impossibile per un simile eroe) pronunciando le immortali parole: “Nessuno può farlo, tranne Dio e me!” Fino al giorno in cui, dopo i tanti successi, distrattamente disse all’apice della parabola, per errore: “Nessuno può farlo, tranne me e Dio!” Anteponendo se stesso al nome del Creatore e commettendo, in questo modo, imperdonabile blasfemia. Un gesto per cui sarebbe stato punito, per volere dell’Altissimo, venendo trasformato in una statua di bronzo a perenne monito della popolazione. Forse neanche il peggior fato possibile, tutto considerato….