In lontananza tra gli alberi, mentre le luci del pomeriggio iniziavano a scemare, udimmo chiaramente il canto di una balena. Non che il più grande mammifero della Terra, per quanto fosse a noi chiaro in quell’epoca meno scientifica degli attuali giorni, emettesse alcun tipo di suono comprensibile all’orecchio umano. Ma se l’avesse fatto, fummo pronti a convenire mentre si apportavano gli ultimi preparativi al campo base, avrebbe avuto esattamente quella stridula tonalità espressiva: (Waaaaaaaaaaah!) Quindi alla nota dominante se ne aggiunse una seconda, cambiando e modulandone il fondamentale timbro. Ora sembrava di sentire il flauto di un musicista folle ispirato da Lucifero, oppure il canto mongolo delle vaste valli erbose della Mongolia. Lentamente, un giorno dopo l’altro, iniziammo a riconoscere quel suono. E dopo circa una settimana di ricerche, finalmente, avemmo l’opportunità d’incontrare il timido cane.
Per Sir Edward Hallstorm, famoso filantropo australiano e direttore del museo Taronga di Sydney, nella vicina Australia, verso l’inizio degli anni ’50 non era associabile un preciso volto ai canidi notati per la prima volta in queste foreste 1606 dall’insensibile esploratore spagnolo Luís Vaz de Torres, che aveva trovato in Nuova Caledonia “Piccole creature stupide, incapaci di abbaiare o ululare, anche se colpite con un bastone” e che lo zoologo inglese Charles De Vis, nel 1911, aveva sospettato essere un qualche tipo di cane ferale, un tempo usato per fare la guardia nei villaggi della Nuova Caledonia e successivamente ritornato allo stato brado, per decidere in quel fatidico momento di tornare a emettere il soave canto dei propri antenati. Ciò che finalmente ebbe l’occasione di conoscere, cogliendo l’occasione di attribuire ad esso il suo nome, era una razza molto simile al dingo australiano ma più piccola, dagli occhi a mandorla ed il muso triangolare, le orecchie mobili, la coda lievemente ricurva verso l’alto come quella di un lupo. Eppure nonostante il comprensibile entusiasmo, successivamente la sua classificazione tassonomica di questa categoria canina come una specie a parte denominata Canis hallstromi sarebbe decaduta, in forza di analisi genetiche mitocondriali capaci di associarlo al tipico cane selvatico della maggiore terra emersa d’Oceania e la razza, anticamente addomesticata, del basenji. Il cane canoro era in altri termini, semplicemente un cane, tuttavia adattatosi attraverso i secoli a un particolare habitat, per la sopravvivenza solitaria e la caccia sistematica di marsupiali, roditori e uccelli tipici delle giungle terrestri meridionali. Pur essendo privo di una categoria differente da quella del semplice Canis familiaris, tuttavia, il cane della Nuova Caledonia si presenta con abilità e doti fondamentalmente differenti, tra cui una propensione ad arrampicarsi simile a quella della volpe grigia, grazie a una flessibilità maggiore della zampe che possono essere ruotate di quasi 180 gradi. Un tapetum lucidum oculare tanto sviluppato da assomigliare a quello di un gatto, permettendogli di vedere bene anche di notte. E ovviamente, l’apparato fonetico in grado di produrre un canto stridulo che risulta perfettamente riconoscibile anche da distanze sorprendentemente significative. Che potrebbe ricordare in linea di principio il tipico ululato udibile nelle foreste del tipico bioma paleartico, o anche l’enfatico lamento di un cane di razza husky proiettato su una scala infinitamente maggiore, ma presenta cambiamenti repentini di frequenza con durata di appena 300-500 millisecondi, soprattutto durante le ore del vespro o al sorgere del sole. Un suono che gradualmente, gli abitanti del posto avrebbero smesso di sentire, causa progressiva riduzione del numero di esemplari non ancora addomesticati ed in funzione di questo, destinati a incrociarsi con razze di tipo differente, perdendo buona parte della propria unicità primordiale. Se non che a un gruppo guidato da James K. Mcintyre della Fondazione Cani Canori della Florida e composto in parte da biologi dell’università della Nuova Guinea, all’improvviso verso il termine di questa calda estate del 2020, sarebbe improvvisamente venuto un dubbio: possibile che la silenziosa razza di canidi degli altopiani alla base del monte Puncak Jaya, nella regione di Tembagapura, potessero custodire un maggior grado di parentela rispetto a quello sospettato fin dalle origini della faccenda?
Si è trattato dell’esito finale di un lungo percorso, iniziato nel 2018 con la cattura ed il successivo rilascio, previa attribuzione di collari GPS, di un paio di esemplari di HWD (Higland Wild Dogs) curiosamente corrispondenti alle caratteristiche esteriori attribuite da oltre quattro secoli alla razza degli NGSD (New Guinea Singing Dog). Dall’analisi genetica del loro DNA, confrontato con un database di oltre 1.346 razze di tutto il mondo, gli scienziati hanno quindi individuato un’indubbia somiglianza di maggior rilievo proprio con la razza ritenuta ormai scomparsa dall’isola, sebbene parte delle loro abitudini fossero evidentemente cambiate col trascorrere delle generazioni. Caratteristica dei cani canori è infatti quella di smettere di produrre la propria speciale vocalizzazione, ogni qual volta si trovano in ambienti popolati da creature simili ma propense ad abbaiare e guaire come qualsiasi altro canide della Terra. E non è in effetti impossibile immaginare che, come già successo più volte in precedenza, questa particolare popolazione avesse perso temporaneamente l’abitudine a cantare, portando il suo rappresentante tipo ad essere “soltanto” un cane selvatico della Nuova Guinea. Il che comporta, tuttavia, un’eredità genetica fortemente distinta, che in epoca recente è stata individuata in una grande migrazione di animali chiaramente non domestici compiutasi circa 12.000 anni fa a partire dall’Asia e lungo possibili ponti di terra nell’arcipelago della Malesia, ovvero ancor prima che l’epocale deriva dei continenti separasse l’isola coperta di foreste dal vasto continente australiano. Individuando in questa particolare razza un probabile antenato dello stesso dingo, i cui fossili più antichi risalgono soltanto a 3.500 anni prima di questa data. Cognizione valida per l’individuazione di una serie di caratteristiche comportamentali distinte, che non lo portano ad esempio a formare branchi di un alto numero di esemplari, vivendo piuttosto al massimo in coppia e dividendosi i compiti, tra maschio e femmina, nella custodia ed educazione dei fino a 6 cuccioli per tutto il tempo necessario al raggiungimento dell’indipendenza. La femmina del cane canoro inoltre, differentemente dalla maggior parte dei cani domestici ma in maniera uguale al dingo, va in calore soltanto una volta l’anno verso il mese di ottobre, sebbene l’evento possa ripetersi fino a tre volte nel giro di 16 settimane, nel caso in cui non riesca a trovare un adeguato partner riproduttivo.
Per tutto il proseguire degli anni successivi all’analisi scientifica di Hallstorm, verso la metà del Novecento, l’effettivo avvistamento o notazione udibile dei cani canori allo stato brado tese a diventare più raro. E questo nonostante il successo ottenuto come razza domestica, grazie all’esportazione di 8 esemplari negli Stati Uniti, per la costituzione di un ceppo genetico ritenuto tanto eccezionalmente “puro” da stare iniziando a subire, sfortunatamente, alcuni chiari simboli di consanguineità. Ed ecco dunque l’importanza della scoperta recentemente registrata da Mcintyre e colleghi, che potrebbe idealmente servire a disporre di un nuovo apporto genetico da far incrociare con cani canori ante-litteram, per il ritorno della razza ad uno stato di grazia antecedente alla progressiva riduzione del loro territorio di caccia per la consueta urbanizzazione da parte degli umani. Il discorso relativo alla conservazione di cani selvatici come questi, d’altra parte, risulta essere da tempo una questione complessa, data la mancante appartenenza ad una specie o sottospecie distinta, ma anche l’impossibilità di praticarne l’allevamento intensivo data la perdita di caratteristiche innate mediante l’educazione in contesti geografici e con stili di vita radicalmente diversi.
Dove tracciare, quindi, la fondamentale linea distintiva? In che momento il cane della Nuova Guinea, per come ebbe l’occasione di conoscerlo il suo primo classificatore, ricevette e fu modificato dall’apporto genetico delle razze portate fin qui dai primi esploratori polinesiani, la cui effettiva provenienza potrebbe essere individuata proprio dal possesso di cani chiaramente provenienti dall’Asia… E soprattutto, in che maniera ciò dovrebbe contribuire nel decidere se l’NGSD sia in effetti, una creatura degna di essere attentamente preservata?
Per come canta, per come vive, per come esiste, il cane canoro ha lungamente costituito un fattore implicito di queste terre, forse da un tempo ancor più antico degli umani. Ed il fatto che potenzialmente, sotto mentite & silenziose spoglie, stia tutt’ora continuando a farlo, è una chiara dimostrazione del suo stato di diritto che trasecola il confine delle multiple generazioni. Che si tratti di capitoli geologici, umani o canini. Dopo tutto nel suo caso, per ogni secolo dovremmo contare settecento anni, o almeno così si dice. Abbastanza per creare nuove note, da ululare senza sosta verso l’incostante luna dell’emisfero australe.