“Portate quindi il vostro cibo, la vostra acqua, i vestiti e le altre risorse necessarie alla sopravvivenza, poiché nulla sopravvive nell’arido entroterra delle sabbie senza tempo… A meno che riesca a farlo contando unicamente sulle proprie forze.” E così fu, attraverso il lungo corso delle epoche nella storia; genti nomadi o stanziali, indifferenti all’ardua regola della natura, prosperarono con quieta ostinazione, costruendo quell’insieme di strutture che hanno nome collettivamente “Civiltà”. Al sopraggiungere dell’epoca moderna, tuttavia, i deserti sembrerebbero aver perso il proprio scopo primordiale; poiché quando tutto è connessione, integrazione, schema collettivo del villaggio globale, quale può essere lo scopo di ammantarsi della solitudine del mondo, andando a vivere in mezzo ai roadrunner e le lucertole di Gila? Finché sorse a un paio di generazioni a questa parte, sotto l’occhio dello spettatore e della storia, il nome di una direttiva domeinante: NIMBY, “Not In My Backyard” (Non nel mio cortile!) Il sentimento collettivo per cui bella è l’energia pulita, costante, significativa. Ma del resto qui tutti ricordano la fusione parziale del nocciolo a Three Mile Island; per non parlare del terribile disastro, più distante ma non certo meno grave, della centrale Lenin presso quel di Chernobyl, Ucraina. Ecco quindi nel distante 1973, prendere per la prima volta forma l’idea. Di una centrale in grado di essere non solo la più imponente & significativa degli Stati Uniti (in un paese che ne possiede quasi un centinaio) ma soprattutto statisticamente incapace di subire incidenti significativi, data la collocazione a ben 72 chilometri dalla città di Phoenix, Arizona e molto più… Da qualsivoglia altro centro abitato degno di questo nome. Circondata dall’assoluto nulla in ogni direzione e finché riesca a spingersi lo sguardo degli umani. Così Palo Verde fu il suo nome, dal toponimo di origine spagnola in uso per questa regione, quando finalmente venne inaugurata nel gennaio del 1986, sotto la supervisione della società dell’Energia del Servizio Pubblico dell’Arizona che l’ha in gestione tutt’ora e con l’aiuto della compagnia ingegneristico-architettonica Bechtel Power di Norwalk della California. Tre reattori da oltre 1300 MWe di emissione ciascuno, costruiti in modo inusuale al fine di essere del tutto indipendenti l’uno dall’altro in materia di raffreddamento e operatività, per condividere soltanto i servizi offerti dalle strutture di supporto ed assistenza, collocate al centro del complesso in grado di vantare un’estensione complessiva di 1.600 ettari. Di sicuro, un obiettivo non così arduo da raggiungere quando si hanno a disposizione i vasti spazi che caratterizzano l’entroterra americano, benché essi non risultino inerentemente privi di un fondamentale problema: ci avevate mai pensato? Quasi nessuna grande centrale nucleare sorge, in alcun paese del mondo, lontano da laghi, fiumi o le rive dell’oceano. Questo perché sviluppare la fusione di quei carburanti, riuscendo faticosamente a mantenerla sotto controllo, comporta un impegno significativo e costante, sostenuto da copiose quantità del fluido che costantemente sacrifica se stesso, evaporando al fine di tenere i gradi sotto ad un livello ragionevolmente controllabile dall’uomo. Il che ci porta, senza significative esitazioni, al punto cardine della questione…
Fin dai primi documenti stilati come proposta di fattibilità della centrale, quindi, venne definito come obiettivo “desiderabile” la stipula di un accordo con la vicina città di Phoenix e gli altri centri abitati relativamente vicini di Glendale, Mesa, Phoenix, Scottsdale e Tempe al fine di ricevere, trattare e sfruttare le acque reflue degli impianti fognari nella loro quasi totalità effettiva, per il riutilizzo all’interno delle alti torri di raffreddamento che costituiscono il fondamentale corollario di ciascuno dei tre grandi reattori di tipo pressurizzato (Pressurized Water Reactor – PWR). Il tutto mediante l’impiego di un acquedotto dal diametro di quasi tre metri, che veicola l’utile fluido verso l’impianto di lavorazione (Water Reclamation Facility – WRF) in una quantità di 90 milioni di galloni al giorno, per la rimozione dei nitrati prima di essere depositato in un serbatoio dall’estensione di 90 acri e una capienza di 670 galloni. Uno speciale sistema di recupero del vapore inoltre, collocato a coronamento di ciascuna torre di raffreddamento principale, si occupa di recuperare una parte significativa dell’umidità per condensarla nuovamente e reinserirla nel sistema chiuso, benché nei volumi assolutamente spropositati di cui stiamo parlando ciò risulti essere nient’altro che un ausilio di supporto collaterale. Un altro dei principi fondati della PVNGS (Palo Verde Nuclear Generating Station) progettata per la prima volta all’apice finale della guerra fredda, fu dunque la sua gestione secondo standard di precisione e sicurezza di natura militare, impiegando fin da subito un grande numero di addetti provenienti da quel mondo e un piccolo esercito di guardie armate, considerato necessario data l’importanza strategica assolutamente innegabile di una simile poderosa installazione. Un’istituzione destinata ad essere ulteriormente rafforzata nei periodi caldi, come durante la guerra in Iraq del 2003, quando ulteriori truppe provenienti dalla Guardia Nazionale furono schierate a protezione addizionale del sito. Con un insieme di procedure rivelatosi capace di scovare ad esempio un tubo esplosivo rimasto accidentalmente nel cassone del pick-up di un lavoratore a contratto nel 2007, ma famosamente destinato a rivelarsi meno efficace contro la tutt’ora misteriosa (e fortunatamente priva di conseguenze) infiltrazione notturna di un’intera squadra di droni radiocomandati, sopra i cieli della centrale, durante due notti successive nel settembre del 2019, dimostrando al mondo l’inerente pericolosità futura di una simile tipologia d’implementi.
Con una licenza operativa rinnovato nel 2011 per ulteriori 35 anni, risultato non da poco per un’installazione nucleare costruita secondo parametri operativi di svariate generazioni a questa parte, Palo Verde guarda quindi al futuro come una distesa ricca di opportunità. Inclusa quella, studiata con particolare interesse nel corso dell’ultimo anno, di sfruttare le carenti faglie geologiche ad alta profondità nella confinante regione di Buckeye, come ausilio complementare rispetto a quelle provenienti dall’acquedotto, nella speranza di ridurre almeno parzialmente il consumo ed il trattamento delle acque reflue. Il che potrebbe ipoteticamente, oltre ad aggiungere ulteriori margini di sicurezza, fornire lo strumento economico necessario ad abbassare ulteriormente il prezzo al cliente finale dell’energia.
Che un simile apparato poderoso vanti significativi margini di miglioramento, dunque, resta indubbio. Soprattutto quando si parla di una struttura tanto massiccia, soggetta a rischio sismico potenziale (ma NON per ovvie ragioni, quello di tsunami) come l’intera parte sud-occidentale degli Stati Uniti. E non rimasta del tutto priva, negli anni a partire dal 2007, di temporanei ed occasionali spostamenti amministrativi tra i siti nucleari di Categoria 4, sottoposti ad attenzioni particolari causa violazioni minori degli elevati standard di sicurezza nazionali.
Benché la centrale di Palo Alto, come quelle ancor più grandi costruite nei paesi dell’Estremo Oriente attraverso questi ultimi decenni, continui a rispondere a una domanda fondamentalmente inevitabile. Ovvero se sia realmente possibile, considerata la corrente situazione del mutamento climatico e le pericolose emissioni dei metodi tradizionali fondati su carbone e petrolio, tralasciare l’opportunità offerta di assolvere all’intero fabbisogno energetico di una persona nel corso di un’intera vita, a partire da una quantità di carburante contenuta all’interno della tipica lattina da un quarto di litro della Fanta o Coca-Cola. Il tutto a patto di dimenticare, o mettere in un angolo della memoria, le remote ma pur sempre possibili conseguenze di un eventuale convergenza dei fattori più indesiderabili fino al verificarsi di un qualsivoglia incidente. Perché è senz’altro facile affermare “L’energia nucleare è un bene” quando non si vive nell’area potenzialmente affetta in maniera particolarmente intesa da un’eventuale Catarsi Apocalittica Finale. Ed ecco la ragion per cui, a conti fatti, allungare per quanto possibile quell’acquedotto a spese della città di Phoenix in quei remoti anni ’70 non dev’essere sembrato affatto male. Benché al palesarsi della crisi catastrofica ciò che davvero importa, come sempre avviene, sia la direzione in cui soffia il vento. E l’aspetto più terrificante è la maniera in cui, nonostante i tanti progressi compiuti, ci manchi ancora un modo valido per controllarla.