“Farà un po’ male” Lo so. All’interno di una camera ragionevolmente sterile, un uomo mosso dallo spirito di abnegazione si avvicina ad una scatola trasparente. Perché ci vuole indubbiamente coraggio, ad affrontare la prova che sta per vivere sulla sua pelle, in senso così orribilmente letterale: con un profondo e inevitabile sospiro, nonostante l’esperienza maturata, il direttore della ricerca nell’Istituto per la Salute di Ifakara mette il braccio destro nel singolo foro d’ingresso auto-sigillante. Mentre all’interno del contenitore un migliaio di anime, scaturite direttamente dalle regioni paludose dell’Inferno, gioiscono per l’atteso inizio della loro cena.
Naturalmente nessuno chiama questo luogo col suo nome ufficiale, preferendogli l’accattivante marchio di fabbrica, riportato anche sul cartello d’ingresso, di Mosquito City, ovvero la città delle zanzare. Nome drammaticamente collegato a quello della stessa comunità che circonda lo stabilimento, il cui appellativo in lingua swahili si richiama direttamente all’espressione di “Luogo in cui si va a morire”. Parlando con gli amici sotto la luce di un lampione, mentre si esce per fare il bucato o si va a fare la spesa. Da bambini, nel breve tragitto tra casa e scuola; in maniera irrimediabile e crudele, per il gesto di un insetto totalmente inconsapevole del suo ruolo. Nonostante abbia rappresentato, fin da un tempo ancor più lungo del temuto ratto della peste nera, il più agguerrito nemico dell’umanità. Zanzara al cui indirizzo, persino i militanti dei gruppi ambientalisti contemporanei non esitano ad invocare l’estinzione, dato un ruolo nel sostegno degli ecosistemi trascurabile, o comunque secondario rispetto ai danni che riesce a causare. Non tanto in condizioni per così dire ideali, quando le appartenenti alla famiglia delle Culicidae si limitano a nutrirsi di nettare e altre sostanze vegetali, mentre riescono persino ad agire con il ruolo d’impollinatori secondari. Bensì quando la femmina, come prescritto dal suo ruolo evolutivo, è ansiosa di acquisire le sostanze nutritive necessarie a produrre l’involucro delle sue uova. Ovvero ferro, contenuto per l’appunto nel sangue umano. Contingenza già sufficientemente sgradevole dal nostro punto di vista, che assume tuttavia proporzioni particolarmente tragiche nei paesi tropicali come questo, dove il Plasmodium della malaria non è stato ancora debellato, trovando l’ideale vettore di trasmissione proprio nel volo di così ronzanti, famelici untori.
Vuole tuttavia l’evidenza dei fatti, come ampiamente dimostrato dalla quantità di vittime annuali, che riuscire a debellare un insetto come questo sia una missione quasi impossibile per l’umanità, con progressione diametralmente inversa al malcapitato fato dei grandi carnivori africani ed altre specie che vorremmo preservare. La maggior parte delle zanzare infatti ed in modo particolare specie in qualche modo rimaste prosperose nonostante l’applicazione dell’ingegno e le tecnologie umane nel corso dell’ultimo operoso ventennio, come le Anopheles funestus e gambiae, sono per così dire “incinte” praticamente ogni singolo minuto della loro esistenza, generando uno scenario che potremmo definire sotto molti punti di vista del tutto privo di speranze future. A meno finché, seguendo l’ultimo post in ordine di tempo comparso sul blog del facoltoso filantropo Bill Gates, non si ottiene una conoscenza per lo meno superficiale dell’importante lavoro di Fredros Okumu e colleghi.
Il concetto alla base di Mosquito City, centro di ricerca specializzato dislocato su 6.000 metri quadri, è quello di approfondire il più possibile il comportamento e i punti deboli delle specie più pericolose appartenenti alla categoria ben nota, attraverso l’allevamento sistematico di esemplari mantenuti in cattività e in conseguenza di ciò, sicuramente privi del parassita che induce la malaria. Il che risulta essere più complesso di quanto ci si potrebbe aspettare, data la storica difficoltà nel mantenere in vita queste creature per un tempo sufficientemente lungo, a meno di praticare il loro nutrimento mediante metodologie per così dire, “naturali”. Ecco spiegata quindi la ragione della scena di apertura nel video di Gates, così come quella successiva, per certi versi ancor più sconvolgente, in cui un intero giovane vitello viene dato essenzialmente “in pasto” ad uno sciame semplicemente troppo grande per nutrirlo mediante un generoso apporto di sangue umano. Un approccio che permette il mantenimento in situazione controllata di una quantità d’insetti sufficienti all’applicazione del metodo statistico in una vasta serie di contesti, tra cui quello dello studio comportamentale, delle abitudini riproduttive, le preferenze in materia d’alimentazione o persino la lunghezza dei tragitti percorsi dagli esemplari in cerca di nutrimento, mediante l’impiego di veri e propri tunnel che si estendono lungo l’intero perimetro della struttura. L’individuazione presso il centro di ricerca di Ifakara dell’odore maggiormente attraente delle zanzare come quello dei piedi umani, ad esempio, ha permesso in epoca recente la creazione di un particolare tipo di calzature o fasce da indossare alle caviglie trattate con insetticida, che si sono dimostrate particolarmente efficaci nello scoraggiare l’attacco da parte dei diabolici animali. Mentre un altro successo di questa valida istituzione può essere individuato nei cosiddetti tubi per il sottotetto, un’ingegnoso punto d’ingresso offerto nel punto preferito dalle zanzare per penetrare all’interno delle abitazioni, che si rivela essere in realtà una trappola letale da cui le visitatrici indesiderate non riusciranno più ad uscire. Un’altro percorso di ricerca rivelatosi potenzialmente proficuo, ed abbastanza recente da essere citato anche nel video di Gates, è quello d’individuare i siti preferiti per l’accoppiamento all’interno di una specifica comunità, generalmente presso luoghi in cui si accumulano rifiuti o altri tipi di scarti, per poi agire con decisione spruzzando veleni nell’aria, nel tentativo di annientare sul nascere l’intera prossima generazione. Metodi almeno in apparenza scoordinati tra loro e non sempre facili da implementare, benché il successo nel loro impiego di concerto può essere apprezzato pressoché immediatamente, una volta preso conoscenza delle statistiche secondo cui nell’intera valle di Kilombero, dove si trova la città di Ifakara, si sia verificato un calo di oltre il 95% dei casi accertati di malaria nel corso degli ultimi anni, ovvero successivamente all’istituzione del centro di ricerca attualmente diretto da Okumu.
Perché, anche nei paesi dove imperversano in maniera apparentemente incontrastata, ridurre fino ad un problema marginale queste pericolose specie di zanzare è ormai da tempo un problema per lo più logistico, laddove tecnologie come quelle delle reti protettive per i letti imbevute d’insetticida hanno rivelato tutta la loro efficacia, mentre continua ad essere comparativamente difficile veicolarne una quantità sufficiente all’interno delle comunità colpite. Lo stesso blog di Gates citava, in uno dei suoi recenti post, l’efficacia notevole di un nuovo sistema distributivo utilizzato in Benin, consistente nell’attribuzione di un QR code univoco a ciascun membro di una comunità colpita, il quale attraverso la presentazione dello stesso al momento della consegna della zanzariera, confermata con ora e luogo mediante l’impiego del GPS di un telefono cellulare, potrà contribuire alla presa di coscienza dello stato effettivo del progetto distributivo e quali siano le zone dove permane una quantità insufficiente di sistemi anti-zanzare. Metodologia di comprovata efficienza che dimostra, come affermato enfaticamente dal fondatore ed ex-capo di Microsoft, la maniera in cui “Soluzioni relativamente semplici” possano risolvere “problemi così gravi e complessi.
L’esistenza di un luogo come il centro di ricerca sulle zanzare di Ifakara costituisce un tiepido barlume di speranza, in quella che potremmo definire una delle guerre più antiche, e rilevanti, nell’intera storia pregressa dell’epoca moderna. Laddove anche una pandemia virale, come quella che stiamo vivendo a causa del Covid-19, potrebbe allentare l’attenzione delle organizzazioni internazionali nei confronti di questa patologia sempre presente, capace di causare una quantità di morti corrispondenti a una significativa frazione di quelli che abbiamo avuto in questo problematico 2020. Stiamo parlando, a tal proposito, di 228 milioni di casi registrati ad esempio nel 2018, con 405.000 morti confermate. Concentrate primariamente in quel Sud del mondo che secondo il senso comune, chiamerebbe su di se il disastro con l’incapacità di adattarsi a standard preventivi e metodologie proprie di una vera civiltà contemporanea. Ovvero come quella del cosiddetto Occidente industrializzato il quale, guarda caso, fatica tanto ad indossare le mascherine o lavarsi le mani di fronte alla patologia più grave dell’ultimo secolo, e forse anche di quello successivo. A meno che le due specie più temute di Culicidae tropicali, in forza del mutamento climatico, tornino ad allontanarsi in modo significativo dall’Equatore. Ed allora potremmo trovarci a dover ringraziare per il sangue donato alla causa, in modo particolarmente giustificato, dagli uomini e le donne che lavorano presso l’istituto di Ifakara…