E se qualcuno tentasse di convincervi che il concetto di conservazione ecologica è nato in epoca moderna, non dovrete far altro che portare il seguente esempio: qualche anno prima del 30 d.C. un colossale serpente, giunto nuotando fin dall’Asia, si accoppiò con un animale in Francia. E da una simile congiuntura nacque la creatura che avrebbe condannato, per un’intera generazione, il popolo drammaticamente impreparato della Provenza. Il nome del mostruoso rettile era Leviatano, così come veniva chiamato anche nella Bibbia e secondo quanto minuziosamente narrato da Jacopo da Varazze, frate domenicano e vescovo di Genova, nel 1298 all’interno della sua Leggenda Aurea, testo sulla storia della natura e dei santi. Mentre la sua consorte, a quanto ci viene qui spiegato, apparteneva alla specie ormai da tempo estinta dell’Onachus, una sorta di mucca in grado di dar fuoco a qualsiasi cosa ne toccasse direttamente il corpo, oppure gli escrementi. Così che in una stretta gola del fiume Rodano, chiamata dai locali Tarusco, venne avvistato per la prima volta l’infernale pargolo simile a un drago, ma che appariva chiaramente come un qualcosa di totalmente nuovo: sei zampe, un alto carapace ricoperto d’aculei, il volto simile a quello di un leone con folta criniera e sul retro, una ricurva coda di scorpione. Il frate non indica mai in maniera esplicita la dimensione di quella che avrebbe preso il nome popolare di Tarasque (in italiano, Tarasca) e perciò i resoconti divergono in materia, benché dovesse necessariamente trattarsi di una creatura piuttosto imponente, data la sua assoluta predilezione per il vorace consumo di carne umana. E il ruolo che avrebbe assunto, in una leggenda particolarmente importante per il patrimonio culturale dell’Europa medievale, inerentemente affine a quella di San Giorgio e il drago. Così come il guerriero impugna la spada, simbolo maschile per eccellenza, allo scopo di ferire o uccidere la bestia, fu sempre insito nella mentalità e morale umana che lo stesso risultato potesse venire raggiunto con le buone, mediante un approccio tipico dell’altra metà del cielo. Il che ci porta, a stretto giro di corsa, verso la figura lungamente celebrata di santa Marta, sorella di Lazzaro resuscitato e Maria che potrebbe essere, ma probabilmente non era, la Maddalena. Citata nei vangeli come la donna che tanto era assorta nelle faccende domestiche, durante la visita di Cristo in persona presso la sua casa, da non riconoscere istantaneamente l’importanza del suo messaggio, un errore a seguito del quale si sarebbe redenta per poi diventare una delle sue seguaci maggiormente devote. Senza mai perdere, tuttavia, l’inclinazione al problem-solving che avrebbe caratterizzato, nel racconto folkloristico alla base della leggenda, la sua successiva avventura provenzale. Pare infatti che ella fosse lì giunta, assieme ai suoi familiari, qualche decade dopo la seconda e finale dipartita del Maestro, per sfuggire alle crudeli persecuzioni dei romani. Per incontrare quindi, in una contingenza particolarmente (s-)fortunata, l’orribile bestia del Tarusco mentre si recava a lavare i panni presso le scroscianti acque del fiume Rodano. Ora l’effettivo inquadramento di una tale casistica, nelle diverse interpretazioni della faccenda, varia sensibilmente, poiché secondo alcuni la santa aveva fatto la scelta cosciente di liberare il mondo terreno da una creatura particolarmente insidiosa, mentre nell’opinione di altri ella volle soltanto, in qualche modo, tentare di salvarsi la vita. Fatto sta che mentre stava per essere divorata dal mostro, Maria si mise istintivamente a recitare più volte il Padre Nostro, e ogni volta che giungeva alla fine della preghiera, la Tarasca diventava più piccola, fino a ridursi a proporzioni comparabili a quelle di un piccolo alligatore sudamericano, benché pur sempre dotato di un alito capace di annientare almeno un paio di cavalieri in armatura. In alcune versioni, Marta asperse anche la creatura con l’acqua santa contribuendo ulteriormente ad ammansirla, benché non sia chiaro esattamente se fosse sempre stata sua abitudine averne copiose quantità nel suo bagaglio di viaggiatrice. Assistendo alla scena surreale da una rispettosa distanza di sicurezza, a quel punto fatale, un abitante del villaggio chiamò a raccolta sedici forti giovani armati di lance ed asce, per approfittare della lieta occasione e finalmente, liberarsi della belva improbabile che per tanti anni aveva trasformato in pasto i loro padri, fratelli ed altri validi connazionali. Otto di loro, nonostante tutto, finirono per perdere la vita, verso l’ottenimento di una vendetta ampiamente giustificata ma che viste le premesse, non può che lasciare un senso di perdita nella storia pregressa dell’eterno conflitto tra uomo e natura…
La Tarasca come concetto sarebbe quindi rimasta strettamente legata alla città che ne condivide il nome, Tarascona sulle bocche del Rodano, un affascinante borgo di 13.000 abitanti famoso in modo particolare, tra le molte altre cose, per lo svettante e perfettamente conservato Castello, tra i monumenti nazionali più amati di tutta la Francia. Con i suoi 45 metri d’altezza e spessi bastioni direttamente ispirati a quelli della Bastiglia, costruite dai duchi di Angiò tra il 1400 e il 1435, proprio sopra le rocce ove secondo la leggenda, sarebbe stata solita ritirarsi la Tarasca. Un castello particolarmente legato alla figura di Renato I di Napoli detto il Buono, che una volta perso il controllo del suo regno ereditario nel sud Italia essendo stato sconfitto dalle armate di Alfonso di Trastámara, fece ritorno alla Provenza avìta nel 1461, trascorrendo il resto della sua vita tra quelle inviolabili mura. Così come aveva fatto suo padre, e il padre di suo padre, ma con una significativa differenza: si narra infatti che Renato d’Angiò fosse un patrono particolarmente attivo delle arti e che, rimasto colpito dal ricco patrimonio folkloristico della regione, avesse deciso di risvegliare in maniera concreta oltre che metaforica il mostro più terribile, ed al tempo stesso magnifico, di questo luogo. Istituendo l’usanza della festa omonima che, con molte interruzioni pregresse, viene tutt’ora praticata qui, e in certi altri luoghi d’Europa. Una celebrazione Tarascona, che sia di matrice francese, spagnola o belga, culmina sempre con lo stesso trionfo: quello della “macchina” ovvero riproduzione a dimensioni naturali (qualsiasi esse fossero) dell’orribile mostro ammansito da Santa Marta, spinto innanzi per l’occasione da un corpo di facchini scelti, chiamati per l’appunto, sia in lingua francese che spagnola, i tarascaires. Il cui abbigliamento tuttavia varia sensibilmente a seconda della regione, così che nella capitale provenzale del mito essi appaiono come alfieri o barbareschi dal fantasioso costume medievaleggiante, mentre a Barcellona, ad esempio, si presentano come veri e propri diavoli mandati sulla Terra, per custodire e guidare l’orco fluviale costantemente affamato di carne umana.
Più volte raffigurata nella storia dell’arte (ne compaiono riproduzioni scultoree, ad esempio, presso l’abbazia medievale di Montmajour) benché poco conosciuta al di fuori dei suoi territori di provenienza mitologica, fino alla famosa ceramica di Picasso che ne faceva una sorta di Pokémon ante-litteram con pratica funzionalità addizionale di caraffa per il vino, la Tarasca diventa quindi celebre su scala internazionale grazie al suo inserimento nella prima edizione del gioco di ruolo tradizionale Dungeons & Dragons (1974) in cui costituiva il mostro più potente e terribile previsto dall’intero regolamento. Con un aspetto non propriamente fedele all’originale, più simile a un tirannosauro dalle braccia allungate ed il portamento ingobbito di un formichiere gigante, nonché la capacità notevole di passare attraverso la nuda pietra, allo scopo di raggiungere la sua tana nascosta nelle più oscure e nascoste profondità della Terra. Fino all’inopportuno ma inevitabile risveglio, a seguito del quale avrebbe marciato sopra le città dell’uomo, i suoi eserciti, i suoi castelli.
La Tarasca come concetto post-moderno dunque, ormai privo delle connotazioni religiose che gli erano appartenute in origine, ha spesso fatto la sua parte all’interno del pantheon mitologico sfruttato da innumerevoli videogiochi ed altre opere d’intrattenimento post-globalizzazione, spesso con maggiore attenzione alle fonti rispetto a quelle prestate dall’interpretazione offerta in D&D. Particolarmente interessanti, a tal proposito, le versioni giapponesi proposte nella serie di RPG digitali Shin Megami Tensei (La Vera Reincarnazione della Dea – 1992) e in un personaggio della lunga serie di cartoni animati One Piece (1997- in corso) Pekoms, figura antropomorfa con testa di leone capace di trasformarsi, al fine di proteggere la propria schiena con un guscio che appare indubbiamente simile a quello della Tarasca. Ottenendo un risultato finale che potremmo arrivare a ricondurre, in maniera indiretta, a Genbu o in cinese Xuánwǔ, la “tartaruga nera” con l’incarico di far la guardia alle porte settentrionali d’innumerevoli città e palazzi dell’Estremo Oriente. Ma dimenticata risulta essere, molto spesso, l’originale dotazione di sei zampe da parte del mostruoso, probabilmente poco affine alla predilezione per i terapodi da parte dei processi evolutivi terrestri, una realtà del resto riconfermata a seguito del ritrovamento nel 1988 di uno scheletro parziale di dinosauro in Francia, chiamato per l’appunto, allo scopo di celebrarne l’appartenenza nazionale, Tarascosaurus.
Attraverso le innumerevoli culture di questo pianeta e indipendentemente dall’approccio scelto, che sia ostile o amichevole, i draghi sembrerebbero sempre avere la stessa funzione: rappresentare la debolezza dell’Ego, sconfitto dalla figura prototipica dell’eroe che mostra la via migliore ad un popolo in attesa. Ed è insolito, nonché fondamentale, che tali creature possano venire sconfitte, in particolari occasioni e circostanze, utilizzando l’approccio gentile di una donna. Poiché non tutti gli unicorni Preraffaelliti possono essere candidi equini dall’innata grazia ed amichevole contegno. Ma la gentilezza, alla fine, vince sempre sui mostri di un cupo destino. Purché venga accompagnata da una generosa aspersione d’acqua santa!