L’apparente idillio del pastore mongolo che pesca da un lago ghiacciato

Elegante perché semplice, semplice perché naturale, naturale e proprio per questo, bellissimo. C’è molto da commentare benché i dettagli si nascondano nelle vaste steppe asiatiche, nella scena diventata istantaneamente popolare su Twitter dell’uomo in abito tradizionale, sereno e sicuro di se, che poggiando saldamente gli stivali sulla superficie relativamente spessa di uno specchio d’acqua senza nome, colpisce con la zappa la biancastra superficie, realizzando un foro dalla forma grossomodo circolare entro cui getta delle esche in quantità evidente, attirando pesci dalle tenebre sommerse. Per poi infiggervi, alla percezione inusitata di un remoto movimento, il fulmine letale della forca per il fieno, mentre due amichevoli caprette testimoniano ammirate il sapiente gesto. Poco prima che, con un sorriso grande come il mare che potrebbe non aver mai visto, il cavaliere dell’oceano d’erba estragga l’argentato premio di cotale inconfondibile frangente: tre grosse carpe asiatiche, disposte attentamente in fila parallela, quindi caricate sulla spalla destra, facendo un uso non meno creativo del bucolico strumento di cattura ed ittica uccisione. Segue uno stacco di regia, a seguito del quale ritroviamo l’abitante a prelevare legna e sterpaglia dalla sua catasta, per poi immergere il pescato in salamoia, direttamente condita con i colpi di machete su una roccia non dissimile dalla rinomata lampada di sale tibetano. Conclude la sequenza, lui che cuoce i tre pasti completi, infissi in lunghi stecchi sopra il fuoco precedentemente preparato.
Cosa abbiamo visto, esattamente? Chi è costui? Dove siamo? Abbiamo veramente assistito ad una “Tecnica di pesca vecchia di 10.000 anni!” come enfaticamente titolato sui diversi social e presso gli arcani recessi della blogosfera, o si trattava piuttosto di un semplice individuo dalle plurime risorse, intento a fare ciò che gli riesce meglio: sopravvivere facendo affidamento sulle proprie sole forze, nella sostanziale solitudine di una regione grande due volte la Germania, ma con densità di popolazione persino inferiore all’entroterra australiano… Il primo strumento che abbiamo a disposizione per interpretare il video, comparso per la prima volta sul profilo del russo di origini kazake Gabit Rahimberlin, alias Starshina73, è il fatto che si tratti, per l’appunto, di una testimonianza registrata in digitale. Da un telefonino chiaramente messo in verticale, niente meno, dotato di una risoluzione sufficientemente elevata per garantire una qualità delle immagini perfettamente al passo coi tempi. L’assenza di turisti o terzi d’altro tipo, o in alternativa l’attenzione registica con cui essi vengono tenuti fuori dall’inquadratura, lascia quindi trasparire una certa esperienza nell’uso del mezzo tecnologico, da parte di qualcuno che non è poi così distante dalla civiltà moderna, quanto in apparenza saremmo forse portati a credere, come molti dei commentatori all’affascinante ed ormai celebre contingenza. Il che ci porta al secondo strumento interpretativo, ovvero l’abbigliamento del nostro eroe, chiaramente derivante da una discendenza culturale ragionevolmente precisa, non tanto per la veste lunga e legata in vita, il tipico deel diffuso nell’intero areale culturale mongolo, quanto per l’iconico e riconoscibile copricapo…

In questo documentario sulla Mongolia pubblicato online nel 2012, due pescatori di cui uno dotato del cappello invernale shovgor praticano il foro usando un pesante trapano a mano, per procedere alla cattura del pesce mediante la lenza di un approccio forse meno diretto, ma decisamente più semplice del forcone da fieno.

Senza ulteriori indugi, dunque, possiamo usarlo per ipotizzare uno scenario geografico: trattasi nei fatti, senza eccessivi margini di dubbio, di un riconoscibile kalpak, berretto in feltro e/o pelle di pecora, dalla foggia estiva, come esemplificato dallo spessore ridotto e l’ampia tesa, per proteggersi dal sole. Indumento particolarmente rappresentativo dei pastori provenienti dalle nazioni di Kirghizistan e Kazakistan, benché occasionalmente venga indossato anche entro i confini della Repubblica di Burazia, in Siberia meridionale. Ma qui è lo stesso bioma, col suo clima straordinario, a venirci in aiuto nella pregna procedura investigativa: non è forse vero che il pastore, camminando pochi metri, passa dalle propaggini di un vasto prato secco e marroncino direttamente a uno scenario quasi artico, poco prima di procedere con la sua pesca straordinariamente “miracolosa”? Lasciando intendere quel tipo d’escursione termica, e rarità di precipitazioni, che possiamo unicamente associare all’entroterra centro-asiatico, tipica di quei paesi da cui già sembrava provenire costui. Il che riesce a concederci, con chiara prontezza, un ulteriore chiave interpretativa. Le due simpatiche accompagnatrici infatti non sarebbero altro, a questo punto, che giovani esemplari di capre da cachemire, la pregiata e morbida lana che da tempo rappresenta una delle esportazioni più importanti dell’intera area mongola, particolarmente dopo la necessaria cessazione del sistema di regolamentazione comunista e per quanto concesso da frangenti ecologici avviati, purtroppo, verso un progressivo margine di peggioramento. Mentre fasce significative di popolazione continuano costantemente a trasferirsi nelle periferie cittadine, abbandonando la difficile vita in tenda nella tradizionale ger, quelli che rimangono reinvestono fondi e prestiti privati, per accentrare su di se greggi da centinaia, se non migliaia di capre, che notoriamente hanno un peso significativo sull’ambiente, in quanto mangiano anche i teneri virgulti e le radici di una vasta selezione di piante. Con la vegetazione ridotta al minimo sotto la neve invernale, a questo punto, i loro proprietari devono fare i conti con l’occasionale ripresentarsi del temuto dzud, la stagione della “morte bianca” che quasi sempre compromette irrimediabilmente la sopravvivenza degli animali, costringendo altri pastori a lasciarsi alle spalle la bucolica vita dei propri antenati, per andare a vivere nei sempre più sovrappopolati e caotici centri urbani. Un’ottica, quest’ultima, in cui la capacità di nutrire se stessi grazie ad un sapiente sfruttamento delle risorse naturali, anche in assenza di strumenti “tecnologici” come una canna da pesca, diventa un’importante qualità dell’individuo. L’evidente serenità che traspare dal video di Starshina73, tuttavia, non dovrebbe trarci in inganno: poiché se veramente è autentico come sembra (e non il prodotto di un’intento comunicativo appositamente creato) esso è frutto di un contesto di necessità imprescindibile, dove appena un paio di spedizioni fallite potrebbero comportare per il pescatore una miseria gastronomica capace di condurre alla vera e propria fame.

Non esistono reti eccessivamente lunghe, quando tutto ciò di cui si può disporre per passare lietamente l’inverno è un singolo lago ghiacciato. La variabile, a quel punto, diventa unicamente la capacità di lavorare tutti assieme, per un significativo scopo comune.

Cosa c’è di realmente antico in tutto ciò, dunque, oltre alla pura necessità di sopravvivere, uno dei più antichi desideri dell’umanità? Per conoscere una comprovata “tecnica di pesca mongola tradizionale” occorre probabilmente spostarsi fino al lago di Chagan in Cina (attenzione, non quello radioattivo in Kazakistan) dove annualmente gli abitanti della regione mettono in pratica una celebre festa invernale, consistente nella pesca sotto il ghiaccio mediante la disposizione di una rete lunga 2 Km, attentamente tirata indietro grazie all’uso di un enorme argano di foggia chiaramente navale. Il cui lungo viaggio, fino al Sacro Lago, deve aver costituito una saga di certo non meno affascinante e degna di essere narrata. A patto di riuscire a rintracciarla: poiché Internet, purtroppo, mette in mostra ma sa anche nascondere, talvolta, l’effettivo schema del contesto reale delle cose.
Quanto ancora, quindi, l’uomo col kalpak potrà resistere al richiamo urbano di Almaty, Nursultan o Shymkent, non è certo facile da ipotizzare. Possiamo soltanto sperare contestualmente che, compiuta l’ardua scelta di cambiare vita, gli riesca di trovare una collocazione degna per le sue simpatiche, candide distruttrici dei mondi. Poiché “capra” non è solo un appellativo degno d’identificare l’ignoranza. Ma la porta di una grazia primordiale, che persino il pastore mongolo ha ormai dimenticato grazie all’uso di tende con l’aria condizionata, cellulari d’ultima generazione e pannelli solari. E forse proprio un tale aspetto, tra tutti, non riesce certo a fare parte della soluzione…

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