Uomini dal bianco camice, l’internazionale uniforme di colui-che-sa-quello-che-fa, all’interno di una cabina di cemento e piombo guardano attentamente una serie d’indicatori. Il freddo pungente della primavera del 1971 nella repubblica del Tatarstan presso la località di Pechora, in linea con le aspettative meteorologiche locali, del tutto incapace di penetrare all’interno del bunker, luogo più sicuro della zona in cui s’incontrano i due fiumi, Volga e Kama. Al palesarsi di una lettura giudicata idonea, quindi, il capo della congrega invia il suo chiaro cenno di via libera, indirizzato verso l’occhio attento del suo nostromo. Il quale, con un’espressione concentrata, preme avanti la pesante leva. Una profonda vibrazione, in quel momento, scuote il sottosuolo dell’Unione Sovietica, mentre milioni di metri cubici di terra vengono sollevati gloriosamente verso il cielo, assieme ad alberi, pietre, piccoli animali e nidi d’uccello. Dove prima c’era una foresta, adesso, trova collocazione un profondo canale. Perfettamente navigabile per almeno 11 mesi l’anno, risolvendo l’annosa questione rimasta in bilico da 38 anni!
Ogni estate e questa addirittura più delle altre (ma non sembra, forse, ogni volta così….) Vede il ripetersi della stessa identica e fastidiosa storia: le principali arterie stradali ristrette drammaticamente, come quelle di un gastronomo dal colesterolo superiore alla normalità, data l’esagerata moltiplicazione dei lavori, fissati in calendario da un’intellighenzia che non pare vivere ad un livello comparabile a quello della gente comune, affrontare problemi simili o soffrire contrattempi analoghi a noialtri esseri umani. Così che bloccati nell’eterno traffico, sotto un solleone che neanche l’aria condizionata può sperare di combattere adeguatamente, ci guardiamo attorno e solleviamo nella nostra mente l’ipotetica questione: “Non sarebbe bello se premendo un semplice pulsante, da una rispettosa distanza di sicurezza, l’infrastruttura della strada potesse palesarsi nel giro di pochi secondi o minuti, con un paesaggio rinnovato ancor prima che la polvere possa posarsi oltre il tragico orizzonte delle Cose?” Un sogno che potremmo ricondurre, in termini diretti, all’esplosione di una bomba nucleare.
Pratica, semplice, diretta, risolutiva: lo strumento tecnologico più potente mai creato da mano umana, in senso totalmente letterale, capace di creare un solco profondo nella Terra stessa tanto significativo da risolvere ogni accenno potenziale di un problema. Assurdo eppure strano a dirsi, ci fu un tempo in cui i governi di questo pianeta la pensarono ed agirono perfettamente in linea con tali apparentemente fantasiose, in realtà del tutto tragiche linee guida. Non per niente, ebbero ragione di chiamarla: Era atomica o in alternativa, guerra fredda, gelida, persino. Quando far esplodere un qualcosa nella maniera maggiormente apocalittica a disposizione non era soltanto un valido messaggio per la propaganda, sia in patria che all’estero, bensì un letterale talismano, contro la possibilità purtroppo mai del tutto assente di far l’improvvida fine di Hiroshima o Nagasaki. Perché quale modo migliore esiste, per provare al solito ipotetico nemico l’enorme potenziale del proprio arsenale nascosto, che scatenarne l’orripilante furia contro i recessi meno densamente abitati del proprio stesso territorio? Benché gli incidenti, questo è chiaro, non possano che rimanere in agguato dietro il radioattivo angolo di così pesanti e ineluttabili circostanze…
E sia chiaro d’altra parte come a cominciare furono, anche in questo caso, gli americani. Con la messa in opera a partire dal 1961 della celeberrima e lunga iniziativa Plowshare (ovvero Vòmere) con nome preso in prestito dalla famosa citazione biblica di Isaia: “Ed essi trasformeranno le loro spade in aratri e le lance in falci. Le nazioni non saranno più in lotta tra loro e cesseranno di prepararsi alla guerra […]” Un sentimento questo in linea di principio positivo e nominalmente riconducibile al concetto delle PNE (Peaceful Nuclear Explosion) un tipo di detonazioni, condotte in parallelo ai test delle armi propriamente dette, finalizzate ad assolvere a una serie di mansioni utili come la costruzione di bacini idrici, lo scavo di canali, la prospezione o lo stimolo di produzione del gas naturale e di altri elementi sotterranei utili al progresso umano. Una visione di un futuro radioso, grazie all’energia delle microparticelle potenzialmente letali, che aveva avuto inizio con l’ipotesi fortunatamente mai realizzata del sedicente progetto Chariot, per la costruzione di un colossale (ed inutile) porto presso Capo Thompson, nell’Alaska settentrionale. Grazie all’uso teorico di esattamente cinque ordigni termonucleari, attentamente calibrati in base alle indicazioni del principale scienziato fattosi fautore di una tale soluzione, il fisico di origini ungheresi Edward Teller. Fortuna volle che altri test nucleari più piccoli condotti nella zona, verso l’inizio dello stesso anno, seppero dimostrarsi sufficientemente problematici dal punto di vista ecologico e naturale, causando proteste valide a negare la praticabilità dell’idea.
In altri casi, tuttavia, noi umani non fummo altrettanto fortunati: nel contesto dell’operazione Plowshare sarebbero state fatte detonare ben 31 testate nucleari, prevalentemente in territorio americano, tra cui il caso più eclatante fu il test Storax Sedan, condotto sulle pianure di Yucca nel deserto del Nevada nel 1962, con il fine di scoprire quale fosse il cratere più profondo realizzabile mediante l’uso di una bomba senza causare ricadute problematiche di tipo radioattivo. Se non che un errore nei calcoli avrebbe portato, nelle settimane successive, al diffondersi di una pericolosa nube cancerogena verso alcune delle zone maggiormente popolose dello stato, inclusa la già sufficientemente luminosa città di Las Vegas. Il cui effetto pur costituendo la peggiore irradiazione di popolazione americana, prevedibilmente non sarebbe stata sottoposta a studi troppo approfonditi dal governo di una nazione fermamente intenzionata a riprovarci, ancora per qualche tempo, prima di una possibile fine catastrofica dei giorni “freddi”.
Il progetto parallelo condotto dai sovietici avrebbe quindi avuto inizio più tardi, verso la metà degli anni ’60, venendo battezzato con un meno poetico ma certamente più descrittivo “Esplosioni Nucleari per l’Economia Nazionale” (o in breve Programma n. 7) con finalità comparabili a quelle statunitensi e un occhio particolare allo scavo pressoché istantaneo di colossali miniere. Il numero di testate e conseguenti esperimenti condotti a termine sarebbe quindi stato molto superiore, raggiungendo l’impressionante numero di 115, gestite autonomamente dai diversi ministeri rilevanti di caso in caso, tra cui quello della Geologia, del Petrolio e del Gas Naturale. Quattro eventi, in modo particolare, risultano essere degni di nota come progetti risolutivi effettivamente messi in atto, piuttosto che semplici test, ciascuno finalizzato allo scavo di un canale paragonabile a quello già citato di Pechora-Kama, particolarmente importante per migliorare i collegamenti verso regioni remote della sconfinata terra di Russia. Anche da questa parte dell’Atlantico, prevedibilmente, gli incidenti con le PNE non mancarono, come quello della cava di diamanti di Vilyuy in Jacuzia, trasformata in una conca inutilmente radioattiva o la grande catastrofe di Kinushima, dove le polveri radioattive filtrate attraverso il suolo causarono l’irradiazione di un’area piuttosto ampia della regione del Volga, le cui conseguenze durano tutt’ora. Proprio i russi sarebbero stati, quindi, i principali promotori della fine di questa tipologia di test, col trattato di disarmo proposto dal 1988, firmato da un Ronald Reagan in uno storico incontro a Washington D.C.
Il concetto di una bomba atomica pacifica resta tutt’ora, dunque, quel tipo d’ossimoro che viene stranamente messo di continuo alla prova. Quasi come se l’umanità intera, momentaneamente in grado di convivere con se stessa (almeno se prendiamo come termine di paragone quanto capitato verso la metà del secolo scorso) non fosse in grado di concepire la natura di quella vera guerra che fin dagli albori, in un modo progressivamente più totalizzante, ha continuato ad essere combattuta tra la natura e i suoi bisogni. Più o meno irrinunciabili, come ad esempio la distruzione di un’intera foresta per poterne ricavare un canale.
Fortuna vuole, in conclusione, che particolari approcci tecnologici siano stati surclassati da altri, forse meno rapidi ed immediatamente risolutivi ma privi delle stesse implicazioni d’irrimediabile condanna. Quasi come se la sopravvivenza a lungo termine avesse preso il sopravvento, finalmente, rispetto alle luccicanti attrattive del desiderio. Sembra impossibile, vero?