La tuta gialla d’ordinanza, il passamontagna con respiratore, gli occhiali scuri per non essere abbagliati dall’energia troppo vicina dell’astro solare. Potrebbe essere chiunque, mentre non è affatto arduo indovinare quale sia, in questa famosa foto dello scalatore canadese Dean Carrere risalente all’estate scorsa, l’effettivo scenario di provenienza. Lo lascia intuire il suo stesso abbigliamento da sport estremi e la pronunciata curvatura della Terra ricoperta da una fitta coltre di nubi, con la sensazione latente di trovarsi in bilico sullo strapiombo più alto immaginabile. Il che non è certo scorretto, visto che si tratta della vetta più distante che sia mai stata toccata da piedi, ciglia e mani umane. E che tale rimarrà, almeno fino allo sbarco su Marte, visto come nulla superi da queste astrali parti gli 8.848 metri del monte Everest, non per niente chiamato comignolo sopra il pinnacolo situato in cima al tetto del mondo. Detto ciò i più perspicaci, ed anche tutti gli altri, non tarderanno certo nel notare una strana qualità variopinta del fondale innanzi a cui si staglia la figura umana, costituito da un letterale ammasso d’oggettistica disordinata, tutt’altro che diverso dall’aspetto di una comune discarica di bassa quota. Ora nell’interpretare correttamente questa foto, in prima battuta, occorre innanzi tutto connotare di una descrizione l’effettivo componente principale dell’accumulo: in realtà nient’altro che le celebri bandiere di preghiera, con l’immagine del Cavallo del Vento, dedicate dalla locale popolazione degli Sherpa alla grande Dea Madre della Montagna. Il che non riesce a costituire del resto altro che il primo strato di quello che è notoriamente uno dei affollati luoghi inaccessibili presenti nelle guide turistiche di alpinisti, esploratori e facoltosi poseur: l’Everest è sporco, a dirla tutta, e nessuno sa realmente quale sia un modo possibile per riportarlo alla sua antica dignità spirituale. Inquinato e carico di spazzatura, a partire dai multipli campi base sulle sue pendici, noti luoghi malfamati e frequentati da truffatori di varia provenienza, nonché circondati da effettive discariche, periodicamente svuotate dagli operatori ecologici deputati dalle autorità nepalesi competenti. Ma è quello che si trova sopra, procedendo verso l’ultima e unica destinazione possibile, che presenta una crescente quantità di problemi. Dove l’uomo passa, in effetti, è inevitabile che restino dei chiari segni della sua preoccupazione rivolta esclusivamente al momento che sta vivendo, come in questo caso bombole vuote di gas e ossigeno, incarti del cibo, stoviglie e attrezzature da scalata ormai giudicate inutili in corso d’opera. Una conclusione tutt’altro che rara per tali oggetti, quando si considera il grado di ridondanza che caratterizza una di queste spedizioni di gruppo, il cui prezzo tende ad aggirarsi tra i 20.000 e 100.000 dollari, a seconda del livello di preparazione dei committenti dell’ennesima scalata. Gli unici finanziatori di una macchina possente, che attraverso le decadi si è rivelata un letterale pilastro economico della regione, per non dire il paese intero. Ma può dirsi veramente sostenibile, anche nell’epoca futura, questo luogo che dovrebbe fare della sua unicità contestuale il punto forte di ogni eventuale visita, mentre lo stato dei fatti correnti è la chiara risultanza di un passaggio ed utilizzo eccessivo, coniugato dalla stessa chiara “maleducazione della gente” che è possibile incontrare pressoché ovunque? Ecco, tutto può essere risolto, in linea di principio…
Nota: la foto d’apertura è stata pubblicata a settembre del 2019 sulla pagina Instagram della GoPro, a questo indirizzo.
Il problema principale di pulire l’Everest è che per ogni aumento del carico abbinato ad un gruppo di scalata, aumenta la difficoltà e conseguente pericolo della spedizione. Particolarmente in fase di ritorno, quando statisticamente avviene la maggior parte degli incidenti, per la maggiore stanchezza degli scalatori, la fretta di ritornare alla civiltà e l’inerente difficoltà maggiore di percorrere una discesa. Al che può essere ricondotta, senza alcun dubbio, l’annosa questione delle circa 300 salme, alla stima più recente, disseminate lungo i diversi tragitti verso la sommità, in luoghi chiamati umoristicamente “valli arcobaleno” per la natura variopinta delle tute ed abiti indossati al momento dell’improvvida dipartita. Questo perché l’Everest, pur non essendo difficile o tecnico quanto altre vette celebri come il K2, ha la nota qualità di essere considerato come una sorta di rito di passaggio, spesso considerato irrinunciabile anche per praticanti di un tipo d’alpinismo certamente insufficiente al tipo e livello di sfida vigente in questi luoghi. Una tendenza esacerbata dall’eccezionale abilità degli Sherpa locali, notoriamente resistenti alla carenza d’ossigeno per il proprio stesso patrimonio genetico e perfettamente capaci, grazie alla pratica lunga generazioni, a trasportare di peso anche gli impreparati cronici fino all’agognata sommità della montagna. Un lavoro le cui circostanze nella fase successiva del ritorno non diventano certo più facili, anzi, particolarmente durante l’attraversamento dei vertiginosi crepacci a strapiombo che caratterizzano alcuni dei passaggi più pericolosi della scalata. Il che costituisce la ragione per cui, a partire dalla primavera del 2019, una squadra di 14 Sherpa costituenti la punta di diamante della neonata Everest Cleaning Campaign hanno assunto su di se l’arduo compito di riportare a valle una quantità stimata di 10 tonnellate metriche di spazzatura nel giro di 45 giorni al massimo, incluso un certo numero di sfortunati corpi al fine di dargli una tardiva ed altrettanto meritata sepoltura. Il tutto in concomitanza al rinnovo della misura, ormai attiva dal 2014, che prevede il pagamento di un deposito di 4.000 dollari da parte di ogni gruppo di scalatori, restituito unicamente con la consegna presso il campo base di un carico di almeno 8 Kg di spazzatura. Cifra tutt’altro che insignificante quando si considera il tipo di tragitto interessato e che ha perciò condotto, nella maggior parte dei casi, al pagamento della tassa non eccessivamente costosa nello schema generale delle notevoli spese richieste per fare sulla propria pelle (ricoperta di gore-tex ed altri tessuti dell’epoca spaziale) l’esperienza della montagna più alta e presumibilmente remota al mondo. Questione a parte rappresenta nel frattempo la gestione delle cosiddette scorie umane, seppellite nella neve a più riprese da tutti coloro che hanno avuto l’imprescindibile necessità di liberarsi, giungendo a costituire quella che è stata descritta dagli esperti come una vera e propria “bomba fecale” destinata a sciogliersi con il progressivo mutamento climatico, scivolando disgustosamente verso gli insediamenti e campi situato a valle dell’odoroso tragitto. E questo nonostante l’opera continua di rimozione, tramite lo svuotamento e il trasporto a valle del contenuto delle toilette collocate a intervalli regolari nelle zone dalla percorrenza e raggiungibilità maggiori.
Ogni cambiamento, tuttavia, non può che essere graduale e richiedere un certo numero di anni, soprattutto quando si considera la folla di oltre 1.000 persone che affrontano la scalata ogni anno in continuo aumento, fino a livelli estremi che nessun comitato di pulizia, per quanto composto da personalità esperte, può sperare d’arginare il mare di spazzatura che ne risulta.
La realtà non è quindi facile, né intuitiva da comprendere per le sue profonde ramificazioni. Poiché non sarà mai davvero possibile arginare l’accumulo di oggetti e scorie lungo le pendici del monte sacro finché non si riuscirà a invertire la tendenza, rimuovendone una quantità maggiore di quelle che continuano a sovrapporsi lungo le sue affollate pendici. Il che risulterà possibile, inerentemente, soltanto in seguito all’introduzione del numero chiuso, una misura che comunque avrebbe effetti devastanti sull’economia dell’intera regione di Sagarmatha.
La sporcizia, dunque, sembra destinata a rimanere una parte caratteristica dell’esperienza mistica in questione ancora per parecchi anni a venire. Senza nessuna effettiva possibilità, benché non manchi l’intenzione, di tornare ad uno stato di grazia primordiale, conforme allo stereotipo di quel paesaggio senza pari. Ove la pronunciata curvatura dell’orizzonte riesce a ricordare, in maniera orribilmente contestuale, quella dell’ennesima buccia di banana che qualcuno sembrerebbe aver gettato, distrattamente, ai margini del palcoscenico più eccezionale della Terra. Ma possiamo realmente perdonare, in tali circostanze, gli effetti duraturi di un tale gesto?