Sorge dalle acque, gemma d’Oriente, massiccio complesso di torri ineguali, in mezzo agli scogli coperti di aguzze propaggini e ricci di mare. Laddove un tempo l’armata guardia cittadina controllava l’ingresso delle navi al porto, scegliendo chi avesse il diritto di fare affari coi ricchi mercanti della Turchia meridionale. Ma il tempo non ti è stato amico, edificio carico del peso stesso della Storia. Ed oggi, attrazione turistica di un certo tenore, resti per lo più disadorno e privo di significative iniziative di restauro. Benché la speranza, come si dice, sia l’ultima ad essere tirata via dal moto ricorsivo delle onde marine…
Ciò che spesso accomuna le fortezze associate alla tipica leggenda incentrata su “La figlia imprigionata di un re” è una storia sufficientemente problematica, o tormentata, da motivare la ricerca di un’origine alternativa utile a sviare i più timidi tentativi d’approfondire la storia. Fu senz’altro preferibile, del resto, ai tempi del regno Armeno di Cilicia, affermare che il cosiddetto Castello della Fanciulla (letteralmente in lingua turca: Kiz Kalesi) fosse stato costruito da un indefinito sovrano, al fine di proteggere la principessa dal morso profetizzato di un letale serpente, piuttosto che attribuirne le mura al probabile costruttore l’ammiraglio Eustathios Kymineianos, incaricato di fortificare la città di Corycus agli albori della sanguinosa prima crociata, combattuta sulle vicine terre del Levante. Ciò che qui venne posto in essere dunque, su ordine dello stesso imperatore bizantino Alessio I Comneno, fu un sistema di mura considerato inespugnabile, composto da due complessi originariamente collegati tra loro: la cittadella in corrispondenza della costa e collegata ad essa, attraverso un istmo artificiale oggi non più esistente ma di cui resta una propaggine monca simile a un molo, il notevole edificio isolano che oggi da il nome alla città. Ma Kizkalesi, contrariamente alla tipica rocca delle fiabe, non svetta alta tra le nubi oltre un bosco di rovi e un profondo fossato; trovandosi, piuttosto, a coprire totalmente i 15.000 metri quadri di un isolotto precedentemente usato come base operativa dei pirati (ne parlava già nel I secolo a.C. lo storico Strabone di Amasea) così trasformato nel più perfetto e inaccessibile dei forti portuali, esplosivo potenziale nido d’arcieri, catapulte ed in seguito, cannoni ed altri simili pezzi d’artiglieria. Dell’effettiva storia bellica di questo luogo, in effetti, le cronache non ci dicono molto, benché diverse battaglie siano immaginabili nel corso della sua storia, data la frequenza con cui esso, assieme all’intera città di Corycus, passò attraverso il dominio di diverse potenze del Medioevo e Rinascimento, ogni qual volta trovando modifiche o rovina per abbandono del suo progetto originale. A cominciare dal Re Leone I d’Armenia, che presso questo importante centro portuale scelse di farsi incoronare nel 1198, dopo che il suo popolo era stato costretto ad emigrare in forza delle conquiste dell’Impero Selgiuchide dei Turchi Oghuz. Ma i cui successori circondati dai Mamelucchi in armi furono costretti, non senza rammarico, a chiedere il supporto di del re crociato Pietro I di Lusignano nel 1360, sovrano “titolare” dell’isola di Cipro e Gerusalemme, disposto a scacciare i musulmani dalla città a patto di poterne assumerne rapidamente il controllo. Segue un periodo, attraverso ed oltre il XIV secolo, in cui Corycus e i suoi due castelli cambiano più volte di mano…
Furono di nuovo i turchi musulmani a catturarli e controllare la città fino al 1448. Finché le armate del beilicato di Karaman, nazione indipendente dell’Anatolia, riuscirono a scalarne le mura, per essere a loro volta scacciati dagli egiziani, antichi nemici giurati di Pietro I causa la sua fallimentare avventura di quasi un secolo prima, finalizzata idealmente a conquistare la città de Il Cairo. Fu nel 1454 quindi che, finalmente, l’Impero Ottomano sarebbe giunto in forze per donare una certa stabilità a Corycus, stabilendo un perimetro difensivo sufficientemente a mantenerne inviolate le antiche mura. Fu questa un’epoca di grandi restauri per il Castello della Fanciulla, durante cui le semplici torri quadrate di progettazione bizantina videro affiancarsi, sul lato nord-est, un muro più alto con torri cilindriche di fattura totalmente differente, verso l’ottenimento di una nuova forma triangolare. Vennero quindi demoliti alcuni edifici religiosi cristiani di provenienza armena, tra cui ovviamente la cappella, mentre il castello riceveva ulteriori perfezionamenti bellici, tra cui merlature, feritoie e l’ingrandimento della cisterna. Presumibilmente a quest’epoca risale anche il caratteristico porticato sul lato meridionale, dalla funzione per lo più decorativa. L’antistante fortezza costiera, nel frattempo, venne per lo più abbandonata nell’apparente convinzione che una singola fortezza potesse bastare, mentre l’inarrestabile erosione del tempo la riduceva allo stato di assoluta rovina in cui si trova tutt’ora. Ed è a questo stato privo di rimedi proseguito fino all’epoca odierna che ci si riferisce, primariamente, parlando di città come Kizkalesi che nonostante la lunga storia e il comparto monumentale di prima categoria non sono ancora pronte ad essere dei centri dall’attrattiva perfezionata ad ogni livello, causa l’assenza di fondi e incentivi di provenienza governativa in quantità e con schemi d’investimento sufficientemente risolutivi. Rivolgendo la telecamera verso l’entroterra dal Castello della Fanciulla, nel frattempo, i grandi stabilimenti ed alberghi dallo stile contemporaneo rovinano in parte l’atmosfera, mentre un servizio a flusso continuo d’imbarcazioni trasporta gli interessati fino all’intrigante forte marittimo, tra i punti di riferimento più notevoli della città. E soltanto i più coraggiosi o fisicamente attivi, qualora realmente ne abbiano l’intenzione, possono effettuare i 200 metri circa di nuotata fino agli alti scogli, oltre i quali sorge l’affascinante fortezza dimenticata dai suoi stessi antichi possessori. Scavi del 1982 e 1987 hanno più volte dimostrato, del resto, come gli estensivi interventi di restauro messi in atto dagli Armeni prima ed i Turchi Ottomani in seguito avessero impiegato come materie prime le stesse pietre pluri-secolari prelevate dagli antichi monumenti d’epoca bizantina, senza un particolare occhio di riguardo agli eterogenei trascorsi di questa località duramente contesa.
La storia della famosa fanciulla che da il nome alla rocca dunque, che una profetessa aveva affermato sarebbe stata “Morsa da un letale serpente” avrebbe trovato l’inevitabile compiersi dell’anatema: avendo chiesto un cesto di frutta dalla terraferma, nonostante il confinamento da parte dell’apprensivo padre, sarebbe dunque andata incontro all’improvvida fine dato il nascondersi di un crudele crotalo tra le arance e le mele.
Un possibile riferimento alla morte di Cleopatra o al comparabile “suicidio” della moglie presunta accusata d’adulterio di Leone I d’Armenia, perita in circostanze simili durante la prigionia presso la fortezza di Vahka, nell’ormai distante anno del Signore 1207. Perpetrando l’universale rapporto particolarmente infausto tra castelli e fanciulle (soltanto in Turchia esistono dozzine di “Kiz Kalesi”) in genere culminante con il salvataggio da parte di uno sfolgorante cavaliere o l’improvvida, letale caduta attraverso le crudeli pieghe della Storia. Poiché talvolta si crede sia meglio parlare degli innocenti che abbiamo perso. Piuttosto che delle gesta degli uomini potenti, per cui l’acquisizione del predominio sui popoli poteva ben valere una sanguinosa guerra per la conquista della Terra Santa. O tre.