Rumorosa, cacofonica avventura in divenire lungo l’irto pendio verticale. Spinto innanzi dalla ruota posteriore perforata da possenti chiodi e coperta da una piastra di metallo, posta rigorosamente a una distanza di circa due metri dal mio sellino. Pronto a confidar nella potenza di un motore tanto ribassato, al fine di perfezionare il baricentro della lunga, lunghissima moto! Incitato dalle grida di un pubblico prossimo all’estasi, compio un mezzo giro con la mia manopola. Il corrosivo nitrometano irrompe quindi nel carburatore, affinché lo scheletro rimbalzi contro le pareti mio corpo come da copione, benché io sia soltanto in parte preparato alla potenza dell’urto… Mentre il passato ed il futuro scompaiono alle mie spalle, lentamente, e il cielo inizia a farsi più vicino.
Un importante precetto della disciplina Zen può essere rintracciato nella necessità di “distruggere” le cose o persone che si amano poiché sono proprio esse, più di ogni altra circostanza, a imporci l’insuperabile schiavitù dell’Ego. E chi non conosce per lo meno il titolo del racconto autobiografico di Robert M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta? Ciò che l’autore americano nel 1974 non analizzò in maniera esplicita, tuttavia, è la maniera in cui raggiungere la meta fondamentale dell’Illuminazione possa corrispondere metaforicamente alla scalata di un ostacolo difficile da sottovalutare. Ovvero la salita impercorribile oltre la quale, non visto, ci aspettava il cielo. Ma così come non è nostra facoltà creare un’omelette senza rompere qualche uovo, non è possibile arrivare a una risolutiva conclusione senza l’annientamento di un qualcosa che può esserci particolarmente caro; così come, per l’appunto, il veicolo motorizzato a due ruote. Moto che romba, moto che vibra e moto che più di ogni altra cosa si trasforma temporaneamente in una parte inscindibile del suo utilizzatore, almeno finché un evento imprescindibile non si trasforma nel momento di separazione tra l’uno e l’altra. Mentre lei rotola, senza controllo, fino all’ormai remoto punto di partenza. Evento reiterato almeno una volta per ciascun iscritto, all’annuale evento celebre su Internet della Scalata Impossibile di Andler, presso il comune di Saint-Vith in Belgio, anche soprannominato per ragioni estremamente palesi “Il cimitero delle moto” ovvero punto culminante, sia per quanto concerne la tecnologica che la preparazione individuale, di un percorso di preparazione lungo mesi per quel saliente attimo di circa un paio di minuti, generalmente terminanti con la distruzione pressoché totale di veicolo, persona ed ottime speranze. Benché il termine ufficiale per definire questo tipo di avventura individuale sia Hillclimb (letteralmente: Salita della Collina) essa non ha nulla a che vedere con l’omonima tipologia di gare di velocità in montagna, evento tipico delle due o quattro ruote generalmente abbinato al concetto di prova speciale su strada, alias rally. Né quel poco che potremmo essere portati ad identificare, proveniente dal mondo per certi versi confinante del Trial Motocross, in cui la massima cautela ed attenzione procedurale determinano la riuscita o il fallimento di un vero e proprio percorso di guerra paragonabile a un livello di Super Mario. Laddove qui quello che conta è soprattutto la forza bruta, intesa come possenza motoristica sottoposta al difficile controllo del centauro, prima che la gravità, l’inerzia e il cedimento dei suoi muscoli lo portino, in maniera irrimediabile, a rovinare giù dalla collina. Evento durante il quale in media, esattamente come avviene per il raggiungimento di uno stato di coscienza superiore, soltanto uno su mille sembra potercela fare, ragion per cui sembrerebbe inevitabile interrogarsi, giunti a questo punto, sul PERCHÉ una cosa simile debba esistere e quale SIA, in effetti, la sua utilità. Questioni la cui origine, come per tante altre di quest’epoca incerta, è rintracciabile all’inizio del secolo scorso…
Agli albori di questo particolare campo motoristico, semplicemente, le moto non avevano alcun tipo di sospensione collegata alla ruota posteriore. Il che non impedì del resto, a ridosso del 1900, il raduno di spericolati guidatori presso alcune delle colline più ripide che gli riuscisse di trovare attraverso l’intero territorio degli Stati Uniti per mostrare quanto, effettivamente, potessero contare la prontezza fisica e l’abilità. Si trattava di modelli della Indian, Excelsior e Harley Davidson, sottoposti alla più approfondita messa a punto prestazionale, le cui imprese da Riverdale presso New York fino a El Cerrito entro i confini di San Francisco costituirono nei fatti la più antica, e per molto tempo popolare forma di sport motociclistico, spesso culminante con l’emersione di storici campioni ed eroi. Le cui associazioni diventate nazionali attorno al termine degli anni ’20, non dissimili da vere e proprie gang, si sfidavano con enfasi selvaggia, dando vita a un tipo di rivalità capace di far preoccupare le forze dell’ordine e gli abitanti dei comuni locali. Con l’introduzione delle prime sospensioni a stantuffo per il forcellone posteriore attorno all’epoca della seconda guerra mondiale, dunque, i soldati di ritorno dal fronte in cerca di una valvola di sfogo riportarono in auge questo pericoloso sport, portando finalmente al suo riconoscimento ufficiale da parte dell’American Motorcycle Association nel 1976, il che avrebbe portato alla definizione di una serie di canoni e regolamenti che permangono tutt’ora. Mutuati in seguito alla messa in pratica della disciplina anche in Europa, iniziata in Francia e nei paesi scandinavi nella seconda metà degli anni ’80, particolarmente con l’evento ormai storico di Arette nei Pirenei Atlantici. Con limiti commisurati alla classe di partecipazione, che può andare dai 450 ai 700cc fino a quella semplicemente folle della categoria unlimited, in cui simili bolidi tendono a superare spesso i 1000 di cilindrata tramite accorgimenti come l’impiego di due motori da cross in tandem o quello di veri e propri bolidi stradali da corsa, talvolta modificato per alleggerirlo o persino posizionato all’inverso con ragioni di equilibratura del peso, facendo affidamento su speciali pompe al fine di veicolare al suo interno il carburante. Che dato l’obbligo di utilizzare l’aspirazione naturale, risulta essere in genere del tipo arricchito con NOS o altre sostanze similari, spesso a discapito della durata di un impianto condannato, comunque, ad autodistruggersi entro la fine della stagione di gare. Per quanto concerne la struttura della moto nel frattempo, è convenzione utile allungarla il più possibile mediante estensioni apposite della forcella posteriore, non dissimili da quelle usate nelle gare di drag e con lo stesso obiettivo di prevenire l’impennata involontaria, spesso ultimo atto di qualsiasi tentativo d’arrampicata in collina. Altro elemento fondamentale, il sistema di spegnimento automatico collegato al polso del pilota, che interviene nel momento in cui quest’ultimo venga prevedibilmente sbalzato via, salvaguardando così lui stesso e gli spettatori posti ai lati della salita, spesso pronti a intervenire per tentare d’impedire alla moto di tornare rovinosamente al punto di partenza. Gesto, questo, che connota la natura decisamente “interattiva” di questo sport, in grado di accomunare i nutriti seguiti di tutti gli eventi contemporanei più celebri, dal già citato Andler alla collina di Muhlbach-sur-Munster in Francia, passando per Rachau in Austria e fino alla celebre Devil’s Staircase Climb di Dayton, Ohio, laggiù dall’altra parte dell’Atlantico, dove tutto era iniziato oltre un secolo fa.
La valutazione di ciascuna impresa viene quindi effettuata sulla base della posizione più alta raggiunta dalla ruota anteriore della moto, visto come siano in media molto pochi, i partecipanti capaci di raggiungere effettivamente la cima di simili complicati paesaggi. E ciò risulta particolarmente vero nei siti storici, dove generazioni di motociclisti hanno ormai da tempo rimosso fino all’ultimo granello di terra, lasciando solamente la dura roccia a offrire una trazione decisamente più limitata per le ruote usate dai loro successori. Fino a casi estremi come quello di Adler, dove l’ultima salita portata con successo a termine risale all’ormai remoto 2007, giustificando a pieno titolo la reputazione “impossibile” di tale gara.
Detto questo, non è forse vero che nel perseguire il Nirvana ovvero la cessazione di ogni preconcetto acquisito il viaggio risulti essere, in tanti casi, l’obiettivo? Di un’esistenza in cui la successiva reincarnazione, possibilmente più vicina allo stato del puro spirito, possa veicolare la nostra motoristica coscienza verso gli strati superiori della più ardua tra le colline: un cumulo di spoglie mortali una sopra l’altra, ormai da tempo abbandonate, delle nostre precedenti esistenze in Terra.