Dal Mar Piccolo di Taranto, la spettacolare ripartenza della portaerei Cavour

L’evento si è verificato all’inizio di maggio ma il video è comparso sul Internet soltanto il 20 del mese scorso e di certo merita di essere condiviso, benché rappresenti, nei fatti, il verificarsi di una casistica tutt’altro che rara per il porto della città di Taranto, principale avamposto della marina presso le tiepide acque del mar Ionio. Un luogo protetto in egual misura dalla conformazione del territorio e la manipolazione dello stesso da parte dell’ingegneria umana, capace di portare alla costruzione del più perfetto bacino al di là di uno stretto ingresso da quello più vasto del Mediterraneo, nonché luogo ove trova posto, sin dal 1865, il principale Arsenale Militare Marittimo del nostro paese. Con vasti bacini di carenaggio tra cui il più grande, uno dei pochi di proprietà dell stato capaci di ospitare, ogni qualvolta se ne presenti la necessità, la vasta e potente portaerei Cavour, attuale nave ammiraglia della nostra flotta: 244 metri di lunghezza per 27.900 tonnellate di dislocamento, varata nel 2004 e per questo dotata dei più recenti sistemi radar e di armamento. Ma soprattutto concepita, in ogni sua parte, come ponte mobile operativo composto da un gruppo di volo di fino a 36 Harrier Jet tutti di tipo STOVL (decollo breve, atterraggio verticale) date le dimensioni minori rispetto ai titani di tipo CATOBAR (con catapulta di lancio) delle marine statunitense e francesi per un’operatività ispirata, piuttosto, all’esperienza dell’Inghilterra nelle Falklands, durante cui l’efficienza di questo tipo di velivoli fu dimostrata al di là di ogni dubbio all’interno di un contesto bellico moderno. Il che non elimina, d’altra parte, la necessità di mantenersi aggiornati e al passo dei tempi conducendo senza falla all’effettiva necessità ed intenzione di questa particolare visita, incipit di un nuovo capitolo nella storia del grande battello: a partire dalla modifica, di necessità comprovata, del ponte di volo con l’aggiunta di una superficie metallica, per meglio resistere ai superiori impatti strutturali portati dagli più attuali e pericolosi F-35 di tipo B, considerati un notevole passo avanti nella dotazione aerea della Marina. Verso il cui imbarco temporaneo in acque nordamericane, per le prove tecniche prima della consegna di un nuovo lotto prevista entro la fine dell’anno, la nave si sta spostando proprio in questi giorni, portando a coronamento un’operazione resa tanto più problematica e complessa data la coda del periodo Coronavirus che stiamo ancora vivendo.
Una visione significativa dunque, nonché una scena memorabile, mentre la prua rialzata con la rampa di decollo di tipo skyjump (tipica caratteristica delle portaerei STOVL) si staglia contro la riconoscibile sagoma del castello Aragonese, strettamente connesso all’opera di restauro di Re Ferdinando nel 1492 benché strutture simili, in questo luogo dall’alto valore strategico, fossero esistite fin dall’epoca dei Bizantini. Benché l’unione della Città Vecchia situata sull’isola dall’altra parte dell’istmo verso il cosiddetto Mar Piccolo fosse stata realizzata soltanto nel 1887 grazie alla creazione del ponte di San Francesco di Paola dell’ing. Giuseppe Messina, capolavoro ingegneristico per l’epoca dotato in origine di un sistema di contrappeso ad acqua, sostituito soltanto verso la metà del secolo successivo con il motore di tipo elettrico fornito dalle Officine di Savigliano. Senza modificare, tuttavia, il suo principio di funzionamento, basato sulla rotazione delle due metà in direzioni parallele al molo in un periodo di circa 30 minuti, ogni qualvolta una nave sufficientemente grande richiede l’ingresso all’area protetta del porto per effettuare l’approdo o accedere alle strutture dell’Arsenale. Imbarcazioni come l’indubbiamente ingombrante portaerei Cavour…

Una scena simile, ma all’inverso, ripresa nel 2018 durante l’arrivo della Cavour al bacino protetto del Mar Piccolo, di fronte a una folla decisamente più nutrita data l’assenza del Covid. Interessante la giustapposizione con il Monumento al Marinaio di Taranto, dedicato ai morti della seconda guerra mondiale e realizzato dallo scultore Vittorio Di Cobertaldo nel 1974.

La città di Taranto, definita anche storicamente come un luogo ideale per trascorrere liete giornate dato il clima mite e la vicinanza con spiagge di rara magnificenza, è sempre stata tuttavia un luogo di fervente lavoro metallurgico soprattutto data la presenza degli antichi cantieri della Marina, oggi trasformati più che altro in luoghi di aggiornamento, ripristino e riparazione delle navi dopo lunghi periodi di attività nei distanti territori di tutto il mondo. Con il suo porto protetto da cannoni e lungamente considerato imprendibile almeno finché nel corso della seconda guerra mondiale, nell’evento identificato comunemente come notte di Taranto (tra l’11 e il 12 novembre 1940) un attacco a sorpresa da parte della marina inglese dimostrò come nulla, in ultima analisi, avesse davvero ragione di essere considerato tale. Sto parlando dell’operazione Judgement ed il conseguente arrivo delle forze britanniche a distanza di sicurezza dal principale luogo di stanza dell’intera flotta italiana poco prima d’inviare un gruppo di 20 aerosiluranti Fairey Swordfish verso i facili obiettivi, in un luogo ove teoricamente le loro munizioni non sarebbero dovute risultare in grado di arrecare nessun tipo di danno. Ma la realtà, come sappiamo, fu ben diversa, con l’incrociatore Giuseppe Garibaldi, portatore dello stesso nome dell’ultima nave ammiraglia prima dell’attuale e le tre corazzate Cavour (anch’essa omonima) Duilio e Littorio danneggiate altrettanto gravemente, nella dimostrazione che, come avrebbe successivamente dichiarato l’ammiraglio inglese Andrew Cunningham “[…]La Marina trova nella flotta aerea la sua arma più devastante.” Una realtà destinata a riconfermarsi, con palese evidenza, nella battaglia di Capo Matapan a sud del Peloponneso del 27-29 marzo 1941, durante cui un gruppo di fuoco costituito da unità inglesi e australiane sconfisse sonoramente la Regia Marina, ancora una volta, grazie all’uso determinante degli Swordfish fatti operare dal ponte della HMS Formidable. Occasione destinata a costituire il fondamento della dottrina che avrebbe dovuto portare, negli anni successivi, alla messa in opera delle due unità Aquila e Sparviero, la cui messa in opera fu nei fatti impossibile da ultimare prima dell’armistizio al termine della seconda guerra mondiale.
Il che avrebbe rimandato nei fatti fino al distante 1983 l’effettiva messa in opera di una portaerei battente bandiera tricolore, nell’allora valida Giuseppe Garibaldi da 180 metri, immediatamente nominata portabandiera della flotta italiana e destinata a rimanere tale fino al varo relativamente recente della Cavour. Un passaggio destinato a ripetersi, ancora una volta senza particolari cerimonie nei confronti del vascello “superato” (dopo tutto, anche ciò è la tecnologia) con l’entrata in servizio della nuovissima Trieste, destinata a precorrere di poco la rottamazione, ormai inevitabile, dell’antiquata Garibaldi. Anch’essa una STOVL/portaelicotteri come lo scafo predecessore ma della lunghezza di 245 metri e un dislocamento di 33.000 tonnellate destinati a renderla, seppur di poco, la più imponente nave della marina italiana. Un battello già destinatario di prevedibili critiche, dovute alla sua presunta “natura umanitaria” così come successo su scala differente per la precedente Cavour, la cui sala operatoria di bordo è stata nondimeno utilizzata a più riprese per assistere popolazioni disagiate in stato d’emergenza (Haiti nel 2010) così come il resto del vascello per il trasporto di derrate alimentari e rifornimenti. Il che, d’altronde, non sembrerebbe prescindere dalla necessità di una nazione secondo il concetto contemporaneo di disporre di forze per la difesa del suo territorio terreno e marittimo, ed in conseguenza di ciò, quella di compiere i passi essenziali affinché tali entità risultino capaci di mantenersi all’altezza di ogni possibile teatro presente o dell’immediato futuro che incombe.

La portaerei Trieste ripresa all’inizio di quest’anno presso gli spazi di Fincantieri al Muggiano milanese, dove ormai da tempo sono state spostate molte delle attività di costruzione di nuove unità della Marina. Notare la configurazione a doppia torretta, tipica delle due moderne portaerei britanniche di classe Queen Elizabeth.

Momenti storici benché tutt’altro che inusuali, ingranaggi che girano di una macchina il cui funzionamento, e logica operativa, non possono subire battute d’arresto, neppure nel difficile momento storico ed economico che stiamo vivendo. Poiché una volta riconosciuta, dalle pagine stesse della storia, la necessità di possedere determinati armamenti, ogni obiezione al loro aggiornamento prescinde dall’osservazione di un puro e semplice stato di necessità. Dal che derivano tante navi per ideali “missioni umanitarie” e nuovi gruppi di volo frutto dalle lunghe e travagliate consegne, trasformate in processi simbolo dagli alterni significati positivi o negativi, a seconda dell’interesse delle forze politiche che prendono in mano il microfono di volta in volta, nel prevedibile carosello delle contrapposte opinioni.
Poiché nessuno crede realmente che il significato ultimo di una nave o un aereo da guerra possa null’altro, per l’appunto, che la guerra. Ma è cionondimeno doveroso, e persino desiderabile, affermare la possibilità opposta: poiché ad ogni azione corrisponde un reazione…
E non è forse per questo meglio diffondere un messaggio di speranza per la concordia futura? O in altri termini, mettere fiori nei vostri cannoni; benché in ultima analisi, sarebbe stato ancor meglio tenere i fiori, dopo aver tolto di mezzo i cannoni.

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