Diritta, sottile, ininterrotta è quella linea che collega tutti gli esseri viventi, attraverso il lento trascorrere delle generazioni. Così succede che cambiando ambiente, circostanze, storia ereditaria di una specie, essa finisca non di meno per allinearsi, a suo modo, nello schema delle circostanze date per scontate altrove. Non che debba essere, nei fatti, soltanto un singolo caso di “altrove”: così i cracidi del Sudamerica, in realtà diffusi anche nell’istmo centrale del continente e ancor più sopra, in specifiche regioni del Messico meridionale, possiedano non soltanto caratteristiche dei comuni galliformi selvatici del Vecchio Mondo, come il fagiano, bensì altre mutuate per vie traverse dalla famiglia dei megapodidi, loro distanti cugini dell’Australia, Pacifico e Nuova Guinea. Verso l’ottenimento di un insieme di elementi che risultano fortemente distintivi, caratteristici e difficili da confondere con qualsiasi altra creatura. Osservate, come riferimento, questo maschio di Crax Rubra o hocco maggiore dal richiamo simile alla sirena di una polizia, il più grande, comune e forse più notevole di questi uccelli, 78-84 cm e fino a 4,8 Kg finendo quindi per ricordare nelle dimensioni il tacchino piuttosto che l’uccello simbolo delle nostre comuni fattorie. Eppur capace, nonché propenso, a svolazzar fin sopra gli alberi per ripararsi dai predatori, tra una battuta e l’altra per cercare frutti, bacche e semi. Mentre l’occasionale insetto, topo o piccolo mammifero d’altra natura non viene certo disdegnato, ogni qualvolta si presenti l’occasione di catturarne uno senza eccessive difficoltà. Ciò che lo distingue maggiormente da lontano, d’altro canto, è soprattutto l’aspetto e la disposizione delle sue penne, che al di là del dimorfismo cromatico tra i due sessi, li vede simili nella presenza di un ciuffo ondulato sopra la testa, che l’uccello impiega per segnalare l’intenzione di accoppiarsi, difendersi o imporre più semplicemente la propria notevole presenza. Caratteristica particolarmente nota di questo hocco (o currassow in lingua inglese) come molti altri appartenenti al gruppo dei cracidi, è l’istinto di aggressione notevolmente sviluppato verso chiunque invada il suo territorio, a partire da impreparati, imprudenti umani. Conduttivo verso una serie di feroci attacchi portati mediante l’uso degli artigli e il caratteristico becco gobbuto, di colore giallo nel maschio e nero della femmina con il resto del corpo marrone, rispetto a lui che è invece in genere del tutto nero.
Ogni comportamento ostile, per quanto concerne questo bistrattato uccello, appare particolarmente giustificato data la secolare tradizione di cucinarlo in una serie di piatti tipici, mentre le piume venivano comunemente usate per la costruzione delle frecce di antiche tribù di cacciatori, favorendo uno sfruttamento che avrebbe condotto, attraverso i secoli, a una progressiva riduzione dei loro gruppi sociali un tempo assai uniti. Ma tutto questo non è nulla, in effetti, rispetto alla riduzione progressiva dell’habitat boschivo necessario alla loro sopravvivenza, gradualmente trasformato dall’uomo in campi per la coltivazione della canna da zucchero e altre merci valide all’esportazione, con imprescindibile sofferenza della popolazione aviaria. Un fato condiviso, ed in maniera ancor più sfortunata, da taluni altri rappresentanti di questo particolare ramo dell’albero della vita, oggi inseriti dall’indice dello IUCN tra l’elenco degli animali a maggiore rischio d’estinzione del nostro delicato pianeta.
Forse il caso più eclatante in merito risulta essere, per l’appunto, quello dello hocco dal becco blu (Crax alberti) detto localmente paujil e originario unicamente delle foreste tropicali della Colombia settentrionale dove si stima che rimangano, allo stato attuale, non più di 250-1.000 esemplari di questo uccello. E per il quale, allo stato attuale, proprio l’incertezza in materia della popolazione complessiva risulta un ostacolo non indifferente per quanto concerne azioni conduttive alla sua conservazione futura, benché popolazioni in cattività siano state costituite presso diversi zoo della Terra, con l’intenzione di reintrodurre quando saranno giudicati pronti un certo numero di esemplari allo stato brado, nel difficile tentativo di ricongiungersi a pieno titolo nella bellicosa collettività dei loro fischianti compatrioti. Un percorso già intrapreso con successo nel caso del particolarissimo e brasiliano hocco di Alagoa (Pauxi mitu) o localmente “Mitu mitu” di dimensioni più piccole e privo di dimorfismo sessuale, in cui maschio e femmina possiedono lo steso strano, efficace becco dalla forma triangolare. In un progetto iniziato nel 1979 dal naturalista ed uomo d’affari Pedro Nardelli, che stabilitosi nell’area periferica della città di Maceiò, riuscì a catturarne e metterne in salvo appena cinque esemplari, creando quindi per loro un ambiente artificiale efficacemente propedeutico all’ibridazione con la specie Mitu tuberosum. Per la creazione, a pieno titolo, di veri e propri Adami ed Eve della loro intera specie, mentre una quantità di coppie stanno venendo reintrodotte proprio in questi anni, con tutte le cautele del caso incluso il tracciatore GPS d’ordinanza, nelle ancora incontaminate foreste da cui erano stati, senza troppe cerimonie o considerazione da parte dei loro bipedi dominatori, completamente eliminati. Esilio, annientamento, un timido tentativo di rinascita: ciclo in tre parti che sembrerebbe condotto, in alcuni celebri casi pregressi della conservazione naturalistica, al ritorno di specie considerate in bilico, come il condor della California, il falco delle Mauritius e il corvo delle Hawaii.
La riproduzione degli hocchi, come possiamo facilmente desumere dalle trattazioni online, non è comunque delle maggiormente propedeutiche a una simile strategia, data l’abitudine a deporre appena un paio di uova in un nido sproporzionatamente piccolo costruito sui rami più bassi degli alberi (anche nel caso della specie maggiore, si parla di 9 x 7 cm appena) con la necessità successiva di proteggere il piccolo per un periodo di appena un anno, casistica probabilmente conduttiva in massima parte al tipico temperamento territoriale di queste creature. Le particolari strategie del nido messe in atto dai genitori, che lo custodiranno a turni restando generalmente monogame per l’intero tempo necessario, includono dunque un interessante inganno, mirato a distogliere l’attenzione del nemico fingendosi feriti o morenti, prima di balzare nuovamente all’attacco nella sicurezza, più o meno giustificata, di riuscire in qualche modo a dissuaderlo. Il che funziona meno efficacemente nel caso dei predatori più pericolosi anche per gli adulti, che includono l’aquilastore ornato (Spizaetus ornatus) e l’ocelot (Leopardus pardalis) anche privo di revolver, il cui feroce balzo in avanti riesce facilmente a rimuovere dall’equazione i proprietari e difensori del prezioso e insostituibile nido.
Depositaria di oltre un terzo di tutte le specie di uccelli globali, l’area dell’America Latina costituisce uno scrigno incomparabile della biodiversità residua del mondo in cui viviamo, ove purtroppo le ragioni dell’interesse e e necessità nell’immediato tendono a superare, incautamente, la sopravvivenza futura di quelle creature che a loro modo, in qualche maniera, coronano e migliorano la nostra esistenza. Che i galliformi selvatici possano presentarsi, in definitiva, con molte fogge o forme estremamente distinte non è una condizione necessaria alla continuativa esistenza delle foreste tropicali e non, pur trovandosi al centro dimostrativo di un nesso che trascende il puro e semplice desiderio. Una volta che l’unico hocco rimasto sarà quello maggiormente resistente agli ostacoli del mondo moderno, potremmo finire per guardarci indietro. E rimpiangere, con sentimenti sinceri, la direzione presa nei successivi bivi della nostra spensierata esistenza. Eppur nessun altro, in futuro, potrà sentire l’acuto fischio di quell’inimitabile richiamo d’amore.