Mentre l’uomo si trasforma nel momento ed il momento, prolungandosi, si tinge spontaneamente dei colori della leggenda, ogni singolo respiro finisce per contenere tutta la materia ed ogni logica dell’universo: causa, effetto ed ogni fase intermedia si fondono l’un l’altra, spianando il passo ed il sentiero verso l’auspicabile comprensione di quel Nesso, che sorregge e in qualche modo amplifica l’ultimo significato dei gesti. E così magnifici, sono questi approcci alla necessità profondamente umana di trovare il proprio spazio, qualche volta in linea con le aspettative della collettività che osserva, certe altre, lungo il ciglio della logica pregressa e senza nessun tipo di compromesso: sferragliando come l’ultimo carrello di una profondissima miniera, in bilico sul ciglio del disastro. Complimenti, Kilian Bron: artista della bici fuoristrada i cui successi coprono l’ultimo decennio, a partire da quando all’età di soli 12 anni (così racconta la sua pagina ufficiale) seguì alcuni amici più grandi nella grande avventura della mountain bike, per acquisire un proprio stile, tanto efficace da portarlo entro “pochi anni” nella Top 10 della Coppa di Francia ed entro la terza stagione a competere nel Campionato Mondiale. Ma il cui prodotto mediatico più affascinante, per i semplici cultori di ogni sequenza estrema ed in qualche modo spettacolare, può essere senz’altro rintracciato nel progetto iniziato un paio di anni fa MISSION, in parallelo alla sua partecipazione nell’Intense Mavic Collective della vice-campionessa mondiale Isabeau Courdurier, consistente nel dimostrare l’ottimo potenziale ciclistico di luoghi dove, normalmente, nessuno s’immaginerebbe di puntare il proprio agile manubrio, non importa quanto l’esperienza pregressa in materia possa risultare approfondita ed attenta. Così che succede che durante i nostri mesi di noiosa quarantena, all’improvviso, spunti da Instagram uno spezzone che letteralmente ferma il tempo, mentre molti cercano di capire se si tratti di un montaggio realizzato al computer, o venga usato un qualche tipo d’illusione ottica per far sembrare l’impossibile, realtà. In esso il l’atleta e videografo di fama, trionfatore anche del premio fotografico della marca di occhiali da sole Julbo del 2011, appare ripreso da dietro in un’inquadratura “impossibile” con una strana visuale ad occhio di pesce che riesce ad inquadrarlo a bordo della sua nuova bicicletta mentre procede, a velocità mostruosamente elevata, lungo lo stretto sentiero di uno sperone di roccia, collocato a strapiombo sopra un fiume distante un minimo di 40-50 metri. Indifferente al pericolo di cadere, quindi, egli afferra con sicurezza il manubrio del veicolo a due ruote, per sollevarne quella anteriore con orribile nonchalance, mentre un silenzioso grido collettivo risuona nelle menti degli innumerevoli spettatori d’occasione online. Lo scenario, a tal proposito, rivelerà il suo nome solamente a seguito di una breve ricerca online: siamo presso la Gola di Monrebey, il letterale “Grand Canyon” dei Prepirenei, ove il fiume Noguera Ribagorzana scorre all’interno del profondissimo crepaccio che è anche il confine naturale tra le regioni di Catalogna e Aragona, nota destinazione per l’alpinismo e il trekking di coloro che amano spingersi lontano dal brusio costante della civiltà moderna. Eppur non sempre, a quanto pare, dai più estremi rappresentanti dell’odierna ricerca di profonda e irresistibile adrenalina…
Il segreto del video, ad ogni modo, non è così difficile da comprendere una volta che si prende atto dello strumento impiegato dal celebre ciclista francese: nient’altro che un particolare tipo di telecamera con lente ad occhio di pesce, situata all’estremo di una lunga asta da selfie fatta partire dallo zaino, laddove in altre circostanze lui stesso l’aveva attaccata al casco, le spalle e persino lo stomaco per una bizzarra inquadratura dell’azione (vedi). Mentre per quanto riguarda la rimozione dell’asticella dal video stesso, basti dire che non si tratta certo di una sfida difficile per i moderni programmi di post-produzione, senza calcolare come alcuni di questi dispositivi possiedano algoritmi di funzionamento capaci di assolvere al bisogno in maniera contemporanea alla registrazione. Con il risultato di questa straordinaria scena, in cui l’atleta sembra seguito nelle sue evoluzioni da un velocissimo drone perfettamente stabilizzato, generando il diffuso ma ingiustificato sospetto che l’intero video potesse essere stato realizzato in laboratorio. Ingiustificato perché, per l’appunto, Kilian Bron di imprese simili ne ha compiute molte soprattutto negli ultimi anni, facendo della ricerca della “linea” perfetta una vera e propria missione di vita, paragonabile alla missione arturiana per portare a Camelot l’imprescindibile Santo Graal: Namibia, Perù, Nuova Zelanda ed anche le nostre Dolomiti, attraverso quello stesso tipo di sentiero da lui utilizzato come pista durante l’avventura spagnola, creato in effetti proprio nella nostra terra durante l’epoca del grande conflitto mondiale per poi acquisire il nome certamente descrittivo di “via ferrata”. Alcuni avrebbero potuto già notare, in effetti, nel nostro video di apertura la lunga corda fatta passare all’interno di anelli infissi lungo il fianco della montagna, idealmente utilizzata dai visitatori di questo luogo per assicurare se stessi eliminando il rischio di cadere oltre il baratro finale. Approccio alla prevenzione che ovviamente passa in secondo piano, per non diventare proprio impossibile, nel momento in cui si scelga di percorrere quel ciglio alla velocità di variate decine di chilometri orari.
Sport estremo, dunque, non arriva neanche a descrivere il concetto di quanto siamo qui chiamati a osservare, e secondo alcuni giudicare, come ricerca del massimo risultato raggiungibile all’interno di pochi minuti di video, nel voler trasmettere quell’emozione unica prodotta dal dimenticare se stessi e i propri limiti, verso il raggiungimento di un traguardo largamente disallineata delle aspettative dalla collettività in attesa. Ed in effetti non mancano le critiche, prevedibilmente, al “pericolo” in cui egli sembrerebbe follemente assuefatto, creando un genere di situazione che potrebbe risultare anche pericolosa per gli altri, dato il rischio presunto d’emulazione o di causare incidenti potenzialmente gravi e lesìvi non soltanto alla sua personale incolumità, bensì quella di altri. Il che del resto può dirsi perfettamente applicabile verso chiunque compia un qualsivoglia tipo d’impresa, in qualche modo memorabile o diversa, capace di condurre il proprio nome negli annali ed i ricordi di coloro che capiscono, ed in qualche modo custodiscono, il significato più profondo degli eventi.
Videogiochi e simulazioni, d’altra parte, possono portarti fino a un certo punto. E per chiunque percepisca nel suo profondo il bisogno imprescindibile del Fare, che è comunque ben più che semplice apparenza, implicando piuttosto un rapporto stretto con le cognizioni che esulano dal regno nebuloso dell’Immaginare, riuscirà forse ad avvicinarsi all’invidiabile cognizione di quale possa essere, in effetti, il valore ultimo di quella eccentrica e spettacolare impresa. Giungendo a possedere, almeno per un attimo estremamente transitorio, l’ammirevole tesoro che aspetta dietro le pareti dell’apparenza.
Un valore inerente che giustifica, d’altra parte, il successo ottenuto proprio in questi giorni di quarantena da una video-sequenza come questa, che sebbene risalga almeno alla fine dell’anno scorso, sembrerebbe incarnare perfettamente lo spirito d’evasione che ognuno di noi, a modo suo, sta cercando di mantenere acceso come fiamma del tempio di Vesta verso l’auspicabile ritorno alla normalità. Quando i sellini ricoperti dalla polvere, finalmente, potranno trovarsi ad accogliere nuovamente il peso della nostra dimenticata presenza. E con colpi verso il basso rafforzati dalla frustrazione, torneremo nuovamente a tradurre la nostra forza muscolare in energia, capace di scrivere coi gesti un inedito poema d’avventura.
1 commento su “Pedalando pochi metri oltre il fossato della Sierra del Montsec”