Ci sono molti modi per porre fine a una guerra ed il più semplice, di sicuro, non è l’attacco bensì un’ottima difesa. Verso la metà del 1721, secondo un famoso aneddoto, lo zar Pietro il Grande invitò l’ambasciatore svedese a fare un giro in barca nel golfo di Finlandia, presso l’indaffarato porto della città sulla foce del fiume Neva, da lui fondata e che portava il suo stesso nome. “Per quanto possa essere forte la vostra marina, non prenderete mai San Pietroburgo” affermò il potente sovrano, indicando le fortificazioni sull’isola di Kronstadt e le alte mura del Kronshlot, fortezza fatta sorgere direttamente dal fondale antistante reclamato al mare, per poi passare all’imponente cittadella di Pietro e Paolo, sull’isola delle lepri. E si narra che a tal punto restò colpito, il dignitario straniero, per la quantità di bocche da fuoco, soldati e munizioni evidentemente nascosti all’interno di simili strutture, da non aver nulla da replicare o contrapporre nella discussione. Così che pochi mesi dopo, secondo il seguito del racconto, venne firmato il trattato Nystad, che avrebbe posto la fine a un sanguinoso conflitto durato più di vent’anni. Per tutto l’inizio dell’epoca moderna, d’altra parte, c’era ben poco che anche la più imponente nave da guerra potesse fare contro una fortezza pesantemente armata, anche considerato il famoso detto secondo cui “Un cannone sulla terra ferma vale un’intera fregata” data la maggiore stabilità, lo spazio per caricarlo e l’assenza del pericolo d’incendio, sempre presente quando si utilizzano armi da fuoco all’interno di un vascello di legno. Così che i successivi zar di Russia fino a Nicola I, uno dopo l’altro, avrebbero continuato a potenziare le difese di un simile luogo con l’aggiunta di ulteriori due forti, denominati rispettivamente “Pietro I” e nel 1845, “Imperatore Alessandro I”. Quest’ultima struttura, di certo la più famosa a livello internazionale con la sua forma ellittica con un cortile centrale altamente distintiva e poggiata sopra un’altra isola artificiale, fu costruita dopo un lungo periodo di 10 anni ed avrebbe attraversato, nel corso della sua storia, alcune fasi decisamente interessanti.
L’approccio architettonico per la costruzione di un forte navale in Russia partiva dalla messa in opera di apposite capanne in legno sul ghiaccio d’inverno, chiamate ryazhi, ciascuna riempita di una grande quantità di macigni. Al sopraggiungere del disgelo, dunque, le pietre sprofondavano nella profondità della baia, trasformandosi nel terreno solido entro cui sarebbero state infisse le fondamenta. Costituite, nel caso dell’Alessandro I, da 5535 pali, ciascuno di una lunghezza di 12 metri, successivamente coperti da un solido strato di cemento, sabbia e granito. Ciò che venne dopo, sviluppato su tre piani coperti e pieni di feritoie oltre al tetto capaci di ospitare complessivamente ben oltre il centinaio di cannoni inclusi i temibili Paixhans, i più grandi in uso in simili fortificazioni, nacque quindi dalla fervida mente dell’architetto Louis Barthelemy Carbonnier di Arsit de Gragnac, già responsabile del restauro di alcune fortificazioni limitrofe nel 1827, per la cui successiva morte causa età avanzata ci fu il subentro del russo di origini francesi Jean Antoine Maurice esattamente nove anni dopo. Ed un sottile filo collega, del resto, l’Alessandro I al paese che aveva dato i natali a Napoleone, data la notevole somiglianza esteriore di questo edificio al suo successivo Fort Boyard del 1857, per come era stato adattato alla guerra navale del XIX secolo e la stessa finalità di fondo: resistere agli assalti, e perforare gli invulnerabili scafi, delle navi di linea della marina britannica, dominatrice dei mari europei (e globali).
Il forte non ebbe tuttavia mai modo di partecipare ad alcuna battaglia, sebbene nel 1854, durante la guerra di Crimea, fosse stato messo brevemente in allarme contro la flotta al comando dell’ammiraglio inglese Napier che si stava avvicinando pericolosamente a San Pietroburgo. Se non che la prospettiva di affrontare il fuoco incrociato di tante postazioni passive di combattimento, in aggiunta all’innovativo campo minato galvanico antistante, messo in opera secondo il progetto di Immanuel Nobel in persona (padre del più famoso inventore della dinamite) scoraggiarono tale iniziativa sul nascere. Il vero momento di riscossa del forte, nonché suo maggiore lascito alla posterità, tuttavia, doveva ancora venire…
Nel 1894, mentre il mondo affrontava l’ennesima terribile epidemia di peste partita secondo l’analisi storiografica dalla città di Hong Kong due scienziati, indipendentemente, si recarono nell’epicentro del disastro per giungere coerentemente allo stesso risultato. Essi erano il giapponese Kitasato Shibasaburō e il russo Alexandre Yersin benché sia stato soprattutto il secondo, a quanto ci è dato di capire, ad aver finalmente identificato con successo il batterio Yersinia pestis, uno degli esseri biologici responsabili del maggior numero di decessi nella storia dell’umanità intera. Microrganismo ben diverso dai virus che assediano la nostra avanzata società contemporanea, tale batterio gram-negativo era infatti particolarmente vulnerabile all’aria e alla luce, morendo immediatamente non appena fossero stati effettuati test di approfondimento, benché riuscisse a diffondersi in maniera orribilmente efficiente a partire dalle pulci di molte specie di roditori. Nel 1897 dunque, poco dopo l’inizio del regno dell’imperatore Nikolai II Alexandrovich Romanov e con fondi forniti dal duca Alexander Petrovich di Oldenburg, a San Pietroburgo venne formata una commissione per contrastare la diffusione del terribile bacillo, il cui centro di ricerca operativo richiedeva, per ovvi motivi, una posizione isolata e distante dal vulnerabile popolo della grande capitale. Ragion per cui fu scelto dopo lunghe valutazioni proprio il forte Alessandro I, al tempo stesso sufficientemente vicino all’isola di Kronstadt per essere rifornito e facilmente difendibile da eventuali intrusioni alle origini di situazioni pericolose. Non che tali eventi avessero un’alta probabilità di verificarsi, visto il letterale terrore che tale struttura iniziò ad incutere, mentre ogni volta che il vento soffiava verso la terraferma il popolo chiudeva le finestre tra oscure maledizioni e l’unico collegamento con l’edificio era mantenuto da una piccola nave denominata, molto appropriatamente, “Microbo”. Dietro le mura impenetrabili dell’edificio vennero quindi deputate due zone distinte, una considerata infetta e l’altra “pulita” dove un vasto team di ricercatori collaborò per effettuare gli esperimenti necessari alla creazione del vaccino che di lì a qualche anno, avrebbe modificato il rapporto del popolo russo con la più terribile malattia della storia. Il centro di ricerca operava, primariamente, mediante l’impiego di sperimentazione sugli animali vivi, tra cui primariamente il cavallo, la cui naturale resistenza alla peste ne faceva un soggetto ideale, benché un vero e proprio zoo segreto contenesse anche cervi, renne, cavie, topi e tarbagan, la famosa marmotta siberiana. Creature sacrificate con drammatico trasporto e una finalità tristemente necessaria, la cui importanza appare difficile da negare a fronte dei difficili eventi dei nostri tempi. L’imponente laboratorio, inserito nel quadro operativo dell’Istituto Russo di Medicina Sperimentale, sviluppò quindi nuovi sieri non soltanto contro la peste ma anche il colera, il tetano, il tifo e la scarlattina, benché i suoi standard igienici ben lontani da quelli odierni avessero portato diversi ricercatori a contrarre le stesse malattie contro cui stavano combattendo, per compiere l’estremo sacrificio a beneficio del benessere collettivo, che gli sarebbe valso il prestigioso titolo di eroi della nazione. Troppo poco, troppo tardi?
Ci furono quindi almeno due morti tra il 1904 e il 1917, destinate probabilmente a contribuire alla successiva chiusura del centro, avvenuta nel 1917 dopo l’inizio dell’epoca comunista.
Usato come deposito dalla marina fino alla fine della prima guerra mondiale, quindi abbandonato di fatto e successivamente privato di ogni suo contenuto utilizzabile a partire dagli anni ’80 del Novecento, il forte si trasformò quindi in un luogo di esplorazioni e feste abusive, fino al suo recupero e chiusura nel 2005 da parte dell’amministrazione cittadina. Da allora, diversi progetti sono stati valutati per la sua trasformazione in un sito turistico e potenziale centro dei divertimenti, sebbene il costo previsto di oltre 43 milioni di dollari abbia dissuaso ogni potenziale investitore. A seguito della costruzione della diga di San Pietroburgo tra il 2005 e il 2010, il forte si è quindi trasformato in un punto di passaggio strategico per la navigazione verso il porto cittadino, una condizione che potrebbe, prima o poi, danneggiarne gravemente le fondamenta. Esso resiste ancora, tuttavia, stolido come le menti che seppero metterlo in opera.
A eterna e perentoria difesa di una città che per quanto ci è dato comprendere, scoraggia ogni potenziale nemico ancor prima che possa tentare di assaltarne le mura. Inclusa quella squittente presenza, eppur invisibile e implacabile, che non potrai mai vedere a occhio nudo.