Non c’è da restare necessariamente delusi, quando si approda presso i lidi di una seconda scelta. Sulle seconde scelte ebbero luogo alcuni dei maggiori successi della Storia, come quando gli spagnoli partirono alla ricerca dell’assolata città d’Oro, per trovarne invece una del colore, sotterraneo, della Luna… Termine sovrano al vertice della questione, umanamente fondamentale, del “Cos’è il denaro, dopo tutto?” A cui troviamo una risposta, tra le molte possibili, nell’espressione prototipica spagnola “Costa/vale un Potosi” ove quest’ultima parola, certamente d’uso non comune, viene convenzionalmente riferita a un luogo o per meglio dire, una città. Quando il celebre galeone spagnolo solcava i mari dei Caraibi, durante il corso del XVI secolo ed era in un certo senso proprio questo, il luogo in cui traeva origine la sincera cupidigia, l’egoismo e il desiderio delle ciurme dei pirati, pronti a condannare molti uomini a una morte particolarmente cruda e violenta, pur di mettere le proprie mani sopra la ricchezza transitoriamente posseduta dai loro nemici giurati, le autorità. Non meno colpevoli, dal canto loro, di essersele guadagnate grazie all’inerente spietatezza di coloro che costringono la gente, in maniera più o meno diretta, a perseguire un solo fine, spesso a discapito di tutti gli altri. Così nacque, letteralmente da un giorno all’altro nel 1543, la nuova municipalità all’origine di molti cambiamenti, all’elevazione di 4.000 metri lungo le pendici della montagna del Cerro Rico che i nativi boliviani chiamavano Quechua (“Magnifica”) e gli spagnoli, invece, [Picco della] Opulenza. Chiamata fin da subito, per l’appunto, Potosi in base alla leggenda secondo cui una “voce cavernosa” si sarebbe rivolta agli originari scopritori delle sue ricchezze nascoste, gli Inca che l’avrebbero udita in un imprecisato momento del XIV secolo, mentre gli ordinava di lasciare tutto com’era fino all’arrivo di un presunto nuovo padrone. Il quale sarebbe dunque giunto, sull’onda di un fato particolarmente gramo, grazie al resoconto dello spagnolo Diego de Huallpa, minatore in cerca di fortuna destinato a ritrovare, assieme ad essa, la letterale origine di tutti i mali.
Erano questi gli anni, e le decadi, in cui stava nascendo uno degli assi principali destinati ad influenzare l’evoluzione del concetto stesso di società, fondato sulla naturale attrazione di ogni singolo grammo d’oro e argento a partire dalle Americhe verso l’Europa, e da lì in Asia, in cambio di spezie, artigianato ed altre merci tenute in alta considerazione dai mercati Rinascimentali. In altri termini il primo vero mercato globale, fondato sul concetto di valute in grado di mantenere fisso il proprio valore di scambio grazie al prestigio degli imperi che ne coniavano e garantivano l’esistenza. E come dovremmo già sapere fin troppo bene, nessuno riusciva a farlo meglio di Filippo II di Spagna, quando il suo volto compariva assieme ai marchi del mercante sopra la superficie dell’ormai leggendario pezzo da otto, per cui l’estrazione della materia prima e il successivo conio avvenivano, caso vuole, proprio all’ombra di questo massiccio rinomato. Grazie la sudore e la fatica, mai ridotte oltre una sogli minima di sofferenza, di un’intera classe sociale sfruttata e messa ai ferri sostanziali dalle ragioni del desiderio: quella dei minatori.
Oggi non è insolito trovare reportage di varia natura, come quello mostrato in apertura della viaggiatrice motociclistica Itchy Boots o la qui presente esplorazione sotterranea di Leonor Suárez, in cui viaggiatori o giornalisti varcano la soglia dell’improbabile, per farsi accompagnare dai locali all’interno di questi corridoi del tutto anacronistici, ove molti dei gesti praticati, sostanzialmente, non hanno subito alcuna evoluzione da almeno 300 anni. Ovvero partendo, nei fatti, da quel fatidico giorno del 30 novembre 1569, quando il succitato monarca Filippo II decise di mandare a rappresentarlo nel nuovo mondo la figura del viceré Francisco de Toledo, sufficientemente abile, e spietato, da trovare un sistema idoneo a garantire il flusso continuativo dell’argento. Si trattò, essenzialmente, d’impiegare uno strumento pre-esistente a proprio vantaggio, quello della servitù forzata detta mita che gli Inca e le altre popolazioni locali erano solite imporre ai debitori, qui trasformato essenzialmente in una versione estremamente profittevole della schiavitù. Anche perché le normali vittime di questo processo, provenienti in genere dall’Africa, non erano semplicemente in grado di adattarsi all’aria rarefatta di queste altitudini, finendo per pagarne le conseguenze sulla propria salute ancor prima di quanto fosse idealmente previsto dai crudeli padroni. Così entro poco tempo, un sistema di classi venne stabilito presso le dimore ad alta quota di questo centro abitato che continuava a crescere, con i nativi boliviani alla base che lavoravano fino allo sfinimento, grazie all’aiuto energizzante di una libera circolazione della foglia di coca. In merito alla quale, ben presto, le autorità religiose si affrettarono a sollevare la proibizione, per ovvie ragioni di conseguenza. Lo stato spagnolo, nel frattempo, non gestiva direttamente le cooperative limitandosi a riscuotere una tassa severa e straordinariamente remunerativa, quella del cosiddetto quinto, costituita per l’appunto dal 20% di tutti i ricavi. Entro l’inizio del XVII secolo, un secolo dopo che lo stesso Francisco de Toledo era stato richiamato in Spagna e messo a morte dal suo re per ragioni di presunta corruzione, una sostanziale fascia di popolazione dalle origine basche si era quindi trasferita a Potosi, creando una confederazione contrapposta a quella, pre-esistente, dei Vicuñas. Le due iniziarono quindi a scontrarsi a più riprese per i pozzi minerari, risorsa in numero limitato, portando a una quantità spropositata di morti tra il 1622 e il 1625. Ma la ricchezza di questo luogo un tempo responsabile del 60% di tutto l’argento esistente al mondo, e i relativi ricavi, aveva ormai subito una deriva in negativo, mentre le vene più facilmente accessibili erano andate ormai esaurite, lasciando il posto a meno remunerativi depositi di argentite e sulfite, che necessitavano trattamenti particolari con il mercurio prima di essere adeguatamente purificati. Ormai lontani, del resto, erano i giorni in cui le semplici fornaci concepite dagli Inca bastavano a produrre la materia prima per la zecca locale, che in conseguenza di ciò lavorava ad ritmo fortemente rallentato.
Ciononostante, il tesoro del Cerro Rico era lungi dall’essere esaurito, come sarebbe stato possibile scoprire con il continuativo estendersi delle concessioni minerarie, passate più volte di mano durante e dopo la guerra di liberazione boliviana (1809-1825) per poi finire, in epoca moderna, sotto il controllo di organizzazioni semi-private. Almeno finché nel 2006, con l’elezione del presidente socialista Evo Morales, alle cooperative di minatori non vennero concesse una serie di privilegi e gradi significativi d’indipendenza che durano tutt’ora, in qualità di presunta schiena dorsale economica della nazione.
Allo stato attuale dei fatti e come raccontato dalle molte visite reperibili online, tuttavia, le condizioni lavorative di Potosi restano tutt’altro che raccomandabili. Città abitata da oltre 170.000 persone, tra cui molte impiegate lungo le pur sempre redditizie dorsali della montagna cosiddetta “Mangiatrice di uomini” essa continua a vedere una quantità decisamente significativa di casi da avvelenamento da antracosi ed altre condizioni cliniche particolarmente gravi, dovute alla diffusa mancanza di standard di sicurezza ed equipaggiamenti conformi agli standard di ragionevolezza contemporanei. In conseguenza di ciò l’età media dei lavoratori ha continuato ad abbassarsi con il procedere delle generazioni, fino alle preoccupanti voci che vedrebbero operare, in queste fumose bocche verso le regioni remote del sottosuolo, anche ragazzi o persino bambini al di sotto dell’età civile, in una quantità calcolata dall’Unicef sul 10% di tutti i minatori boliviani.
Inferno e paradiso (inteso come “Strada d’accesso verso la prosperità globale”) dunque, ma sopratutto inferno, inferno, inferno. Poiché non è mai possibile realmente prescindere da tutti coloro che determinate questioni, nei fatti, devono viverle sulla propria stessa pelle. Facilmente sacrificabile per ragioni di mera necessità universale, laddove sarebbe il particolare, nella maggior parte dei casi, a condurci lungo la strada delle più importanti responsabilità umane. Verso un benessere che non possa più dirsi, con vantaggio di pochi e il beneplacito dei pirati, riservato ai temporanei possessori di uno specifico tesoro.