Il sogno sovietico di un Lenin-grattacielo durante l’interludio bellico del ‘900

Può una cosa esistere, senza essere davvero mai esistita? Prendendo atto di una vasta serie di opere di propaganda, appartenenti all’epoca russa dello Stalinismo più convinto, si potrebbe giungere al sospetto che una simile evenienza abbia una base di realismo architettonico latente. Particolarmente nel momento in cui, con enfasi selvaggia, la giovane idealista di questa sequenza del film di Alexander Medvedkin del 1938, La Nuova Mosca, introduce per gli spettatori “il simbolo della potenza e la grandezza della nostra Madrepatria” tra i diversi grattacieli, opere pubbliche e monumenti che avrebbero dovuto trasformare, secondo il principale organo di governo della Repubblica Socialista Russa sotto il comando inflessibile dell’uomo che ne aveva dichiarato l’esistenza stessa, il volto e l’immagine dinnanzi al mondo intero. Libri, volantini, modelli, esposizioni museali: il Palazzo dei Soviet, per un periodo di oltre 10 anni, compare ovunque, circondato dalle opere improbabili di un mondo ritenuto in (troppo) rapido cambiamento. Circondato da aeromobili inesistenti, monorotaie a sospensione magnetica, impianti d’illuminazione ad arco voltaico ed altri caposaldi di quello che oggi definiamo il retrofuturismo, l’enorme torre di 491 metri, che avrebbe superato in altezza la Torre Eiffel e l’Empire State Building recentemente costruito dagli americani, svetta con il suo stile neoclassico, completamente fuori luogo nel contesto a cui sarebbe appartenuta, se non fosse stato per la vasta quantità di grattacieli simili, destinati in linea di principio a sorgere nella nuova capitale delle Nazioni, risvegliatosi finalmente ai valori imprescindibili del comunismo.
Il tutto a partire dalla singola frase di un discorso, pronunciato dalla figura di spicco del partito e amico di vecchia data di Stalin stesso, Sergei Kirov, durante una riunione del Congresso del Partito risalente al dicembre 1922. Quando l’importante politico, destinato ad essere assassinato in circostanze sospette soltanto 4 anni dopo dando inizio al crudele episodio delle grandi purghe, descrisse la necessità imminente di disporre di uno spazio più grande per discutere i problemi del paese, ove gli innumerevoli burocrati provenienti da confini sempre più lontani potessero venire accolti, prendendo immediatamente atto della grandezza e potenza del proletariato. Ipotizzando, quindi, che le mura sorgessero “Sulle macerie dei palazzi un tempo posseduti dai banchieri, i proprietari terrieri e gli zar.” Soltanto due anni dopo quindi, con la morte di Lenin e l’impegno nazionale per la costruzione di monumenti e memoriali destinati al culto della sua persona, apparve ideale procedere con la demolizione della Cattedrale di Cristo Salvatore, risalente al XIX secolo e costruita in un periodo di oltre 40 anni, per porre al suo posto il nuovo e imprescindibile edificio…

Nell’idea originale, il palazzo si sarebbe fermato al terzo livello dei suoi ordini d’ampiezza progressivi, senza l’alta torre o la statua di Lenin che indica verso il domani, ma soltanto un monumento dedicato al Proletariato Libero. Tale idea, ben presto, venne ampliata fino al progetto finale.

Così almeno per l’intero periodo delle prime selezioni tra i 15 studi coinvolti, durate un anno intero dedicato alla demolizione della Cattedrale, sarebbe stata prevalente una visione su tutte: quella di un edificio che potesse distinguersi, per funzionalità e apparenza, dalle opere simili costruite negli Stati Uniti e riprendere in qualche maniera esteriore il carattere del comunismo, offrendo nel frattempo il proprio tetto come plinto per la statua essenziale del politico e rivoluzionario degli anni ’20. Ma le danze furono realmente aperte, per così dire, inizio a luglio del 1931, con una delle più celebri competizioni tra architetti del secolo scorso, in grado di coinvolgere numerosi partecipanti nazionali ma anche progettisti di fama internazionale per un totale di 272 concetti, disegnati da figure come Walter Gropius, Erich Mendelsohn e persino il grande Le Corbusier, che aveva visto nei valori della Rivoluzione il terreno fertile ideale per la sua visione modernista dello spazio strutturale, finalmente scevro della pesantezza proveniente dai canoni storici di un anacronismo passato. Ciò che il cosiddetto Concilio degli Esperti, messo assieme per giudicare le proposte, non aveva ancora avuto modo di considerare era il gusto personale del suo membro più importante e non dichiarato, ovvero Joseph Stalin stesso, il quale aveva in realtà un’idea ben precisa di quale dovesse essere il nuovo canone estetico del paese: ponderoso, elevato, classico e di sicuro impatto. Non avendo ancora dichiarato un vincitore, quindi, a luglio del 1932 venne indotto un terzo concorso, seguito da un quarto l’anno successivo, nuovamente a porte chiuse e numero sempre più ridotto, durante il quale venne finalmente scelto il progetto dell’architetto russo Boris Iofan, studente dell’italiano Armando Brasini laureato all’Accademia delle Belle Arti di Roma. Per supportarlo, dunque, vennero scelte le figure di sostegno di Vladimir Shchuko e Vladimir Gelfreikh, anch’essi neoclassicisti, benché l’ultima parola spettasse al leader supremo e committente. Il quale chiese, immediatamente, di raddoppiare l’altezza del palazzo, includere la falce e il martello sulla sua facciata ed aggiungere ulteriori statue dedicate a Lenin, Marx ed Engels oltre a quella principale del fondatore.
Nella sua versione finale, a questo punto, il Palazzo dei Soviet avrebbe assunto proporzioni spropositate ben oltre i limiti del ragionevole, con una sala principale da 21.000 partecipanti alle sue riunioni ed una seconda più piccola, capace di ospitarne altre 6.000. Con una struttura metallica di oltre 6.600 tonnellate, la sua semplice creazione su carta diede luogo a una febbrile ricerca e sviluppo nella campo della metallurgia, portando a nuovi standard produttivi dei materiali da costruzione, che sarebbero risultati utili per molti anni a venire. Nel 1939, con la Cattedrale ormai un ricordo lontano, le fondamenta del titanico edificio risultarono complete, mentre già venivano edificate le prime strutture metalliche destinate a sorreggere, tutte assieme, la pianta circolare del primo piano. Giusto mentre l’edificazione dello stesso stava per entrare nel vivo, tuttavia, nel 1941 avvenne l’impensabile: l’invasione da parte della Germania nazista come parte principale dell’Operazione Barbarossa, destinata a costituire il punto di svolta della seconda guerra mondiale. Mettendo in campo ogni singola risorsa disponibile quindi, incluse le materie prime dei progetti incompleti, l’Armata Rossa trasformò i componenti del palazzo in trappole e barriere contro i panzer nemici, mentre i metalli ancora in corso di stoccaggio diventarono a loro volta armi e mezzi essenziali per garantirsi la sopravvivenza.

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, le fondamenta del palazzo erano già state allagate dall’acqua piovana e i riflussi fognari. Da lì al ripristino, la bonifica e la trasformazione in uno spazio utilizzabile, il passo fu veramente breve.

Dopo le battaglie di Mosca e di Stalingrado combattute tra il 1941 e il 1942, mentre il vento spazzava via le ceneri ed i russi cominciavano a ricostruire, il progetto dello spropositato monumento venne quindi accantonato, per un periodo superiore ai circa 10 anni entro cui Stalin sarebbe, infine, deceduto per cause naturali. Dopo il breve periodo d’interregno dunque, con l’assunzione del potere da parte del nuovo segretario del partito Nikita Khrushchev entro il 1953, la Russia sovietica ritrovò nuovamente il tipo di potere economico necessario a realizzare il sogno della tanto a lungo desiderata nuova Mosca, sebbene i valori di partenza fossero ormai sensibilmente cambiati: con un passaggio dal culto della personalità a quello dell’utilitarismo e la semplicità esteriore, il gigantesco simbolo dello stalinismo sarebbe dunque stato accantonato, fino alla soluzione sorprendentemente soddisfacente di trasformare, tra il 1958 ed il 1960, le fondamenta inutilizzate sul sito della Cattedrale nella più grande piscina all’aperto del mondo, perfettamente riscaldata nei mesi invernali. Soltanto molti anni dopo dunque, nel 1995 e dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, alla Chiesa Ortodossa sarebbe stato permesso di ricostruire l’antica cattedrale del Salvatore in maniera pressoché identica all’edificio precedente, in un luogo in cui allo stato attuale, si trova tutt’ora.
Perché mai, dunque, il grande grattacielo dedicato a Lenin non sarebbe mai stato costruito? Forse taluni eccessi, dal punto di vista estetico e funzionale, possono essere soltanto il prodotto di uno specifico momento della storia, il delicato equilibrio dei fattori latenti, che interagiscono tra loro, nello scontro tra personalità e visioni difficili da conciliare. La visione offerta ai Soviet da Le Corbusier negli anni ’30, ad esempio, era basata su una serie di edifici interconnessi da un complesso sistema di strade e passaggi sovrapposti, che avrebbero favorito l’interscambio civile di pensieri ed idee tra i diversi partecipanti alle riunioni di partito. Definito a suo tempo dal Concilio giudicante come “un hangar semi-vuoto” ed “eccessivamente avant-garde” tale progetto eliminato sul nascere finì quindi per costituire l’inizio di un processo di rivalutazione da parte dell’architetto svizzero, su cosa potesse effettivamente rappresentare l’ideologia, almeno in apparenza, più conforme ai valori del modernismo. Frutto di quello stesso sistema politico che aveva permesso, per non dire richiesto, l’imbalsamazione sempiterna del proprio fondatore, con surreale analogia operativa alle pratiche usate dai prototipici faraoni.

Quasi nessun rendering del palazzo sembra conforme alle stesse proporzioni e meccaniche proporzionali dell’effettivo progetto originale, benché questo dell’autore coreano Lee Chang Sub, generosamente pubblicato su YouTube, sembri andarci decisamente vicino.

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