New York del 1911, ripresa l’altro ieri

Come se niente fosse, sbarco dal traghetto di Ellis Island, dopo l’obbligatoria visita alla Statua della Libertà. Con aria spensierata faccio quattro passi per il lungomare dell’Hudson, gettando sguardi verso il celebre ponte di Brooklyn, nel tentativo vano di soprassedere alla perplessità delle persone. Che continuano a guardarmi, mentre m’inoltro lungo il corso della 5th Avenue sotto l’imponente forma del Flatiron, tra automobili d’importazione con la guida a destra, carrozze ed il brusio indistinto di una folla che pur essendo numerosa, non raggiunge certo i limiti di quanto avremmo modo di vedere quest’oggi. Tutti vestiti in maniera stranamente elegante, con giacca, cravatta (o cravattino) gli uomini ed imprescindibile cappello, ciascuno intento alla risoluzione di questioni che nonostante tutto, mi riesce difficile riuscire a immaginare. Ed è mentre passo sotto alle rotaie sopraelevate della svettante High Line costruita dalla New York Central Railroad, segno straordinario dell’ineccepibile “modernità” di tutto questo, che il mio essere sfasato sembra allinearsi su un diverso grado dell’esistenza, quasi come se per ogni trascorrere di un singolo secondo, e ciascun atomo all’interno della scena, qualcosa d’inusitato ne avesse creato un secondo. E quindi un terzo, un quarto quantum, proveniente dal reame parallelo della purissima immaginazione! Quello spettro che ogni cosa sovrintende, in questo caso fatto materializzare, dentro e dietro i nostri schermi, grazie all’artificiale cognizione… Digitalizzata?
È pregno considerare come l’infinita ed irrisolvibile sequela di paradossi, da cui non possibile prescindere nel momento in cui si teorizzano o ipotizzano i viaggi nel tempo passato, scompaiono immediatamente soltanto in un caso: quello in cui la leggendaria “macchina” risulti essere, per l’appunto, di un tipo solamente adatto alla foto/video-grafia. Non permettendo quindi di mettere in atto nessun tipo di alterazione sugli eventi, ma soltanto l’acquisizione di un supremo grado di conoscenza, su questioni d’interesse, le epoche trascorse, i nostri stessi antenati. Come una telecamera fluttuante o per restare in tema, magica cinepresa, pilotata in remoto sulla base del potere inalienabile della tecnologia. Che poi costituisce senza dubbio la tipologia d’idea creativa ricreata dallo stesso Denis Shiryaev, informatico e probabile addetto al marketing dell’azienda russa KMTT (Комитет) operante nel campo della pubblicità e (almeno sembrerebbe) le criptovalute, diventato celebre appena un paio di settimane fa per la creazione di un lavoro simile basato sul primo grande successo dei fratelli Lumière, inventori del cinematografo e scopritori del tipo di reazione simile all’orrore che potevi aspettarti dalla folla, nel momento in cui produci sullo schermo l’illusione di un treno in corsa che si appresta ad investirli tutti, nessuno escluso. Opera basata come la sua più recente, per l’appunto, sull’impiego di un particolare strumento tecnologico che pur non piegando le regole dello spazio-tempo, sembrerebbe appartenere nondimeno al regno della pura ed assoluta fantascienza: sto parlando delle reti neurali convoluzionali, baby.
Ovvero l’ennesima dimostrazione che non soltanto i computer possono essere più svelti e avere una migliore memoria degli umani, ma che in determinate circostanze, risultano persino in grado di superarli nella capacità cognitiva che maggiormente siamo certi ci caratterizzi: la speculazione immaginifica delle Ore…

Un altro video meno celebre di Shiryaev è stato basato sulla ripresa, già stabilizzata, del famoso Grand Prix Lunare condotto dall’astronauta John Young, con il Rover Elettrico portato fin lassù dal razzo Apollo 16 del 1972.

David Hunter Hubel e Torten Nils Wiesel, entrambi neuropsicologi, furono i primi a dimostrare tra gli anni ’50 e ’60 come specifiche aree del cervello delle scimmie e dei gatti si attivassero in conseguenza della presa visione di particolari scenari, diverse in base al tipo di pattern o stimolo cognitivo presentato nel corso dei rispettivi esperimenti. Il che avrebbe portato alla creazione del concetto dei campi ricettivi, speciali gruppi di neuroni in grado di processare, integrare e per quanto possibile, completare, le limitate cognizioni mentali dell’esistenza. L’idea di tradurre questa idea psichica in un sistema d’elaborazione digitale sarebbe quindi stata messa in pratica, per la prima volta, dall’equipe del prof. Alex Waibel del Karlsruher Institut für Technologie nel 1987, creatore di un programma in grado di processare i dati introdotti nel computer in maniera indipendente dal tempo, o per usare una diversa tipologia di termini, riuscendo a lavorare in parallelo. Un concetto destinato a rimanere latente per oltre due decadi, fino al palesarsi della cosiddetta Rivoluzione del Deep Learning iniziata attorno agli anni 2012, con la ricerca dello scienziato informatico George E. Dahl, capace di trovare il target biomolecolare di un nuovo principio farmaceutico grazie all’impiego dell’intelligenza artificiale. E di lì all’adozione commerciale, come spesso avviene, il passo fu breve, con gli algoritmi resi popolari da Google, in grado di comprendere il contenuto discorsivo di un’immagine, oppure far rispondere una voce “senza corpo” alle nostre domande più svariate (Hey, Siri!) o ancora permettere a un sistema cosiddetto pensante di guidare, auspicabilmente, l’autoveicolo automatico dei nostri sogni. Fenomeno la cui coda maggiormente in grado di suscitare l’interesse collettivo, in questi Strani Giorni, può forse venire individuata nei software intelligenti che stanno trovando utilizzo sempre più diffuso nel campo della restaurazione cinematografica. L’idea, in effetti, è semplice: inserisci in un computer quantità ponderose di dati. Come, per esempio, decine di migliaia di fotografie, filmini delle vacanze, pubblicità, vecchie opere cinematografiche. Quindi prendi uno spezzone rovinato o in qualche modo imperfetto, magari crepato dal tempo, sfocato o ancora la cui cellulosa è stata trasformata parzialmente in materiale nutritivo dalle tarme. E lascia che il sistema pratichi la sua magia…
Approccio che effettivamente nel caso dei più riusciti video/film di Denis Shiryaev ha un nome e cognome, avendo il creativo russo dichiarato il nome stesso degli algoritmi da lui utilizzati, tra cui Gigapixel AI della Topaz Labs per il raggiungimento dei 4k e 60 fps, con l’ulteriore aiuto di DeOldify NN per l’attribuzione del colore, una pratica talvolta sperimentale che nel caso specifico, tuttavia, si è rivelata sorprendentemente efficace. L’approccio, tuttavia, è diverso da quello che potreste presumere, non essendo qui in atto alcun tipo di magia forense affine a quella mostrata in infinite serie TV in stile CSI, in cui l’investigatore misteriosamente “migliora la risoluzione” del volto dell’assassino catturato da qualche distante telecamera. Bensì la mera iniziativa consistente nel far inventare alla rete neurale, ed integrare attentamente, tutti quei dettagli che sono andati persi nel tempo, come i singoli momenti tra un frame e l’altro, o la tonalità di un singolo cappello, sciarpa, accessorio d’abbigliamento.

Un significativo cambio di registro risulta apprezzabile nel video musicale prodotto dallo stesso autore intitolato Monetochka – Every Time, in cui il volto che canta varia infinite volte tra quello d’individui di ogni età, genere ed etnia. Un’idea certamente tutt’altro che originale (ricordate Black & White di Michael Jackson?) ma qui portato ad un livello vagamente inquietante grazie all’impiego dei network neurali.

Dal punto di vista della ricerca storica dunque una restaurazione come quella operata da Shiryaev sul film newyorkese del 1911, creato dalla compagnia svedese in visita Svenska Biografteatern (che ne avrebbe prodotti altri in alcune delle città più famose del suo tempo) risulta utile quanto i suoni indistinti della folla e del traffico, aggiunti solamente per attualizzare un’opera che per ovvie ragioni a suo tempo, non avrebbe mai potuto catturarli ed inviarli fino a noi. L’impiego dei sistemi convoluzionali in questo particolare campo, tuttavia, può dirsi particolarmente utile nel campo della divulgazione ed la conservazione dei meriti visivi delle fonti, permettendo ad un qualcosa di ormai superato l’originale capacità di catturare l’attenzione pubblica, fornendo un veicolo quanto mai efficace per la nostra fervida immaginazione.
Che poi possiamo farlo veramente, a conti fatti? Affermare che creare ipotesi sia ancora un nostro esclusivo appannaggio, senza riservare nessun tipo di considerazione alla letterale scintilla della sapienza da noi concessa, senza nessun tipo di rimorso, alle macchine che ogni cosa comprendono. E magari, un giorno non troppo lontano, riusciranno a governare! Tra Siri e Skynet, d’altra parte, c’è di mezzo il mare. Ma cose sappiamo fin da tempo immemore, esistono le navi…

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