Era la primavera del 1930 quando due alti progetti avviati anni prima si avviavano al completamento nel centro della Grande Mela, innanzi agli occhi carichi d’aspettativa dei suoi abitanti. Entrambi grattacieli destinati a diventare iconici, per il ruolo che avrebbero saputo conservare nella storia presente e futura: il Chrysler Building ed il Trump Bulding, allora ancora identificato con il nome di (Edificio della) Banca di Manhattan o 40 Wall Street. Entrambi destinati ad essere, nell’idea dei rispettivi architetti, il singolo edificio più alto al mondo, portando ad una corsa folle da parte dei due cantieri nell’aggiungere più piani ancòra e ancòra, causando continui ritardi nel rispettivo completamento. Fu in quella fatidica data dunque che il principale progettista della seconda, H. Craig Severance, in piedi dal più alto piano coperto della sua opera osservava in direzione del palazzo rivale, scambiò un commento col suo supervisore principale dei lavori: “Non sembra anche a te che abbiano quasi finito?” Mentre si sistemava il cappello e l’essenziale cravatta, spostati di lato da una folata di vento d’alta quota, compiaciuto dalla meta raggiunta dei notevoli 283 metri. “Sono d’accordo, capo. Gli argani di sollevamento sono stati rimossi e le gru smontate. Non c’è assolutamente alcuna possibilità che il palazzo cresca di nuovo. Diffondo l’ordine di concludere anche il nostro?” Fatalmente, l’architetto annuì. Un paio di settimane quindi passarono, e mentre le ultime rifiniture venivano applicate nel grattacielo, qualcosa d’inusitato iniziò a verificarsi: una punta dalla sommità del Chrysler comparì un poco alla volta, per continuare quindi a crescere, e crescere. Quel furbastro di un William Van Alen! Il progettista dell’altro gigante aveva fatto costruire, in gran segreto, un alto pinnacolo appuntito dentro le vaste sale degli ultimi piani dell’edificio. E adesso, senza colpo ferire, lo stava sollevando, per raggiungere la vetta di 318 metri e con essa, il primato tanto agognato! Per la massima gloria del suo committente, il magnate delle automobili che aveva costruito un Impero. Ed ora, l’avrebbe governato dai cieli…
Prima di ogni periodo di crisi sussiste una bolla, che può rappresentare il momento di massima opulenza e migliori prospettive, per lo meno in via teorica, di un’intero contesto sociale. Ed in questo non fecero eccezione, di sicuro, gli Stati Uniti nell’epoca immediatamente antecedente al Grande crollo di Wall Street. Portando conseguentemente a quella situazione, particolarmente reiterata nella storia, di una classe indotta, tramite le prospettive di un miglior tenore di vita, a lavorare per coloro che impugnavano le chiavi del potere cittadino, sostenuti da una rigida struttura fatta di denaro, privilegi e potere politico multi-generazionale.
Essi avevano un soprannome, che sarebbe stato usato in seguito dal mondo del cinema quasi per caso, per definire un diverso tipo di eroe: Skywalkers, ovvero “Camminatori dei Cieli” ma anche in via informale, “Cowboys” di quello stesso luogo, ovvero gli operai metallurgici sufficientemente spericolati, o folli, da riuscire a compiere l’impresa riportando a casa, nel migliore dei casi, un decente salario per nutrire la propria famiglia. La storia narrata in apertura del secondo più celebre palazzo in stile Art Decò di New York (superato unicamente, anche in altezza coéva, dall’Empire State Building) e mostrata in video dall’affascinante cinegiornale della serie Fox Movietone, che li mostra alla prese con le celebri aquile scolpite in ferro battuto dell’edificio, fu in particolare collegata a quella di una specifica tribù di nativi canadesi, che usavano chiamare loro stessi Kanien’keháka ma che oggi, tutti conoscono col nome di Mohawk.
L’idea che Manhattan stesse rappresentando, sotto numerosi punti di vista, il luogo più avveniristico della Terra appariva per ovvie ragioni estremamente diffusa in quegli anni, portando a un intento di glorificazione che tendeva a ripresentarsi attraverso innumerevoli rappresentazioni dei nuovi media, tra cui la radio, il cinema, i giornali. Allo stesso 1930 è datata, per esempio, la celebre foto “Pranzo sopra un grattacielo” del rischiatutto Charles C. Ebbets, raffigurante undici lavoratori di questa improbabile categoria, intenti a consumare allegramente il proprio pasto mentre siedono, come niente fosse e senza nessun tipo di fune o imbracature, su una trave sospesa in aria a svariate centinaia di metri, durante la costruzione del 30 Rockfeller Plaza (oggi soprannominato 30 Rock). Nient’altro che un’immagine tra le tante, spesso rimaste prive di attribuzione o accatastate negli archivi di repertorio perché ancora non si credeva che puntare un’obiettivo potesse rappresentare un gesto d’artista, assieme alle occasionali, logisticamente ultra-complesse operazioni di portare fin lassù una ponderosa cinepresa. Portate a termine, molto probabilmente, da personaggi spericolati almeno quanto gli Skywalker che volevano riprendere o celebrare, per cui i concetti di “vertigini” o “paura di cadere” semplicemente non rientravano all’interno dello schema del possibile o le condizioni in grado di modificare l’obiettivo di partenza. Potrebbe apparire assurdo, in effetti, prendere atto di come la costruzione di ciascuno di questi titanici edifici tendesse a richiedere al massimo 24/30 mesi, quando persino adesso, coi moderni mezzi e tecnologie, un edificio come il One World Trade Center (con tutto il suo carico simbolico e le comprensibili pressioni a completarlo) avrebbe necessitato un gran totale di 7 anni prima di giungere alla collocazione dell’antenna finale. Perché in effetti sono molti, i minuti e le ore risparmiate, quando non c’è alcuno standard di sicurezza da rispettare e gli uomini coinvolti nelle operazioni non devono prestare attenzione ad indossare neanche il più banale elmetto di sicurezza, figuriamoci fissare corde o reti di salvataggio nel caso in cui un piede dovesse scivolare dalla proverbiale trave sospesa un terzo di chilometro sopra il solido, spietato manto stradale.
Notevole, a tal proposito, sarebbe risultato il primato del grattacielo tanto voluto da Walter Chrysler, come perfetto investimento dei vasti capitali guadagnati seguendo l’esempio del grande industriale Henry Ford: quello relativo ad essere completato senza che neppure un singolo operaio perdesse la vita, destinato a rimanere un vanto totalmente privo di precedenti in quell’epoca, in cui veniva ritenuta probabile almeno un decesso accidentale ogni tot numero di piani, soprattutto in condizioni di costruzione velocizzata come quella della corsa folle per sconfiggere la Banca di Manhattan verso il record finale. Un traguardo destinato a rimanere un vanto delle associazioni Mohawk coinvolte fino agli anni successivi al recupero dalle Grande depressione del ’29.
Poco importava, in effetti, dello stato della finanza globale a coloro che più di tutti avevano saputo trarre beneficio dal preciso momento in cui la succitata bolla aveva raggiunto le sue massime dimensioni. E sebbene edifici come l’Empire State (costato la vita a 5 persone) fossero destinati a rimanere a lungo tempo parzialmente vuoti, guadagnandosi nel caso specifico il soprannome di Empty State Building, Chrysler fu di contro abbastanza furbo da riuscire ad ottenere contratti a lungo termine con compagnie sufficientemente facoltose da continuare a garantirne i termini di pagamento, ottenendo ottimi profitti proprio in quel periodo in cui di contro, tutti gli altri stavano andando sempre di più a fondo.
Apri la metallica cassaforte nel seminterrato, cosa rimane? Forse la prova di come i periodi più difficili possano rappresentare, tante volte, delle sfolgoranti opportunità verso le strade del successo. A patto di possedere una rampa di lancio fatta con copiose quantità di dollari, sinonimo d’imprescindibile energia moderna! Laddove per tutti gli altri Mohawk, semplici soggetti delle foto o protagonisti di spezzoni cinematografici, resterà l’aspirazione fine a se stessa verso quei fatidici, fanatici 5 minuti di celebrità.