A voi una vista degna di suscitare un certo grado d’interesse: nel 1005 d.C, venticinque vichinghi scesi dalla lunga nave, che inerpicandosi lungo la roccia nuda in grado di costituire quell’approssimazione poco ragionevole di “costa” giungevano sul prato soprastante, iniziando a tendere una lunga corda. La loro intenzione: radunare al centro della sommità un grande gruppo di pecore dal manto nero ed arruffato, le lunghe corna ritorte, prima di calarle, una alla volta e con le zampe ben legate tra di loro, sull’imbarcazione che le avrebbe riportate a Stòra Dimun (Doppio-Collo “maggiore”) la più vicina terra emersa occupata da un insediamento umano, nel fertile arcipelago atlantico delle Faroe. Tutto ciò perché persino Sigmundur Brestisson, temuto guerriero e persecutore degli insediamenti britannici posizionati lungo il mare, doveva pur mangiare assieme al suo equipaggio in inverno, quando la navigazione su lunghe tratte era difficile o impossibile, ed il suo modo per assicurarsi tale possibilità faceva affidamento su un sistema particolarmente funzionale all’epoca: abbandonare il proprio gregge, da cui trarre carne e/o lana, in un luogo sicuro e irraggiungibile, come l’isola di Lítla Dímun (Doppio-Collo “minore”). Il che aveva portato, negli anni, alla nascita di specie specifiche di ovini, spesso recanti il nome dello stesso luogo in cui vivevano ed esclusive di quello specifico territorio, come avvenuto anche, per esempio, presso l’isola scozzese di Soay. Questo alto sperone di roccia ampio a malapena un chilometro quadrato, in grado di raggiungere i 414 metri sopra il livello del mare, aveva tuttavia una problematica caratteristica: la propensione a catturare attorno alla sua forma copiose quantità di vapore acqueo, favorendo la formazione di nubi dalla forma caratteristica indissolubilmente associate a tale luogo, come il cappello di uno stregone o il cappuccio di un frate. E fu proprio questo, in quel fatidico anno registrato nelle saghe faroesi, a mettere in difficoltà Sigmundur, poiché a causa della schermatura meteorologica, risultò per lui impossibile scorgere l’arrivo di una seconda drakkar, questa volta controllata da Tróndur í Gøtu, capo islandese e sua nemesi di vecchia data. Ora il nostro pastore occasionale, proprio in questo luogo, aveva perso i contatti con suo padre Brestur a causa di circostanze simili, dopo che un altro vichingo, Gøtuskeggjar, l’aveva catturato e fatto deportare in Norvegia. Così egli era pronto a tutto e pur scorgendo l’avversario in maniera tardiva, riuscì a coordinare i propri uomini per fare l’impossibile: discendere l’irto dirupo nella parte meridionale dell’isola, girarvi attorno e giusto mentre gli schiavisti armati di tutto punto stavano per raggiungere la sommità dell’isola, salire sulle due navi, abbandonando Tróndur e il suo equipaggio al proprio destino. Ragion per cui, tra l’altro, ancora oggi la parte sud-ovest di Lítla Dímun viene chiamata Sigmundarberg, o montagna di Sigmund.
Mantenuta in alta considerazione, forse, anche per questa storia, l’isola sarebbe quindi venduta all’asta molti anni dopo dal re di Danimarca nel 1852, perché considerata “inutilizzabile” per la cifra allora considerevole di 4.820 Rigsdaler. Entrata a far parte del patrimonio in regime di copyhold (una sorta di noleggio a lungo termine di stampo feudale) di un gruppo d’investitori dell’isola Suðuroy, appartenenti ai villaggi di Hvalba and Sandvík, l’alto pascolo roccioso sarebbe quindi diventata l’unica terra emersa gestita privatamente in tutto l’arcipelago delle Faroe.
Che cosa rende tanto speciale, dunque, un simile rilievo roccioso, potenzialmente inespugnabile, sperduto tra le onde gelide dei mari del Nord? Probabilmente per lungo tempo, il concetto stesso di Lítla Dímun dev’essere risultato inscindibile da quello del suo gregge di pecore, passato attraverso numerosi diversi proprietari e per secoli capace di resistere, riproducendosi fino all’annuale raccolta e trasporto verso un crudele ancorché imprescindibile destino finale. Almeno finché, in un’epoca stimata attorno al 1860, l’ultimo di questi ovini frutto di una selezione operata nel Neolotico venne purtroppo ucciso, causando l’estinzione della loro varietà e l’immediata sostituzione con comuni pecore faroesi, trasportate fin qui dagli uomini di Suðuroy. C’è qualcosa di altamente pratico, nel resto, nel poter disporre di un pascolo lontano da occhi o partecipazioni indiscrete, cui ricorrere ogni qual volta se ne abbia bisogno, tramite approcci metodologici inerentemente irraggiungibili ai più. Un qualcosa di sperimentato, accidentalmente, anche dall’equipaggio dello schooner danese Caspe, che nel 1918, spinto ad arenarsi qui per via di una tempesta, sopravvisse 17 giorni nutrendosi di quelle stesse pecore, prima che una nave da pesca di passaggio notasse il loro fuoco di segnalazione attraverso la foschia.
In epoca moderna & contemporanea, nel frattempo, Lítla Dímun si è trasformata in un importante santuario per la riproduzione dei volatili, tra i quali qui nidificano in modo particolare l’Hydrobates pelagicus (uccello delle tempeste europeo) ed il Fratercula arctica (puffin atlantico) costituendo una significativa attrazione turistica, aperta a chiunque sia abbastanza coraggioso da affrontare la difficile scalata fino alla sommità. L’annuale raccolta delle pecore, nel frattempo, viene ancora praticata ogni autunno, coinvolgendo una quantità approssimativa che ha ormai raggiunto i 200 animali di proprietà di allevatori dei villaggi costieri di Stòra e Suðuroy, alcuni dei quali verranno successivamente riportati, la primavera successiva, oltre la stessa montagna ove Sigmundur eseguì il suo leggendario stratagemma. Ogni anno alcune delle pecore maggiormente recalcitranti al recupero, tuttavia, verranno uccise, un destino sempre prossimo per qualsivoglia animale allevato con finalità di natura industriale o d’allevamento. Diventata quindi celebre grazie alle fotografie diffuse su Internet delle sue caratteristiche formazioni nuvolose, l’isola ha finito per agire come una sorta di magnete per tutti coloro che s’imbarcano sul traghetto tra Torshavn e Suðuroy, che transita in maniera particolarmente vicina alla sua parete orientale, capace di offrire un panorama unico nel suo genere ed immediatamente riconoscibile. Molti dei suoi ammiratori tuttavia, persino tra gli abitanti del luogo, non vi poseranno mai piede, per una semplice ragione: mancanza di vantaggi specifici, nel compiere una simile (talvolta pericolosa) impresa.
Per quanto la scienza meteorologica dei nostri giorni possa facilmente spiegare, in ultima analisi, l’effettiva origine del cappello di nebbia che caratterizza il castello di Sigmundur, esso continua a rappresentare il velo misterioso in grado di nascondere ed accrescere il fascino implicito di un così irraggiungibile luogo. Quasi come se i belati delle pecore, o il sibilo del vento, ancora contenessero il suono di antiche battaglie o saghe ormai dimenticate. E non riesce poi così difficile, se vogliamo, immaginare qui un alto insediamento nascosto dei Nani o Nibelunghi, costruito per dominare dall’alto gli imprevedibili flutti marini, ove le generazioni d’uomini s’industriarono per lunghi secoli con navi da pesca ed armi di metallo, per mantenere il delicato stato delle cose in grado di garantire la continuazione della loro civiltà.
E chi potrebbe mai affermare, d’altra parte, che se l’Inghilterra ebbe ragione letteraria di ricevere la propria misticheggiante Avalon, lo stesso ruolo non possa spettare un giorno, per gli abitanti dell’arcipelago faroese, alla piccola, alta isola di Lítla Dímun.