Oramai è cosa nota: le astronavi partono sempre con la punta rivolta verso il cielo. Una disposizione operativa semplicemente troppo pratica, vista la direzione della loro marcia considerata desiderabile, perché il decollo con modalità comparabili a quelle di un aereo possa in effetti sostituirla. Specie quando si considera come il carburante a bordo sia una variabile tanto problematica in termini di durata e peso. Ciò che appare meno standardizzata, d’altra parte, è la modalità del loro metodo di ritorno a portata fisica del controllo di missione: abbiamo avuto, in origine, velivoli come i grandi razzi a più stadi, che una volta liberatisi di serbatoi e motori, e lasciato il carico in orbita, rispedivano soltanto lo stretto indispensabile verso Terra, a bordo di una semplice capsula dotata di paracadute. Metodologia sostituita, quindi, dall’approccio maggiormente “economico” dello Space Shuttle, versione più sofisticata dello stesso metodo in cui la parte riutilizzabile era l’intero Orbiter, apparecchio alato e ricoperto da uno strato di mattoni super-refrattari, dotato di un carrello per l’atterraggio sulla convenzionale serie di ruote a noi maggiormente familiari. Mentre in epoca ancora più recente, soprattutto grazie al programma portato avanti dall’azienda americana di Elon Musk, SpaceX abbiamo fatto la conoscenza attraverso innumerevoli video su Internet con il terzo approccio, ragionevolmente considerato quello dotato di maggiori presupposti di efficienza. Il dato che potrebbe esservi sfuggito tuttavia, a tal proposito, è che l’atterraggio di un’astronave in posizione diritta, come una versione fatta andare al contrario di un video del suo stesso decollo, ha in realtà un’origine relativamente remota, rintracciabile fino al 1991. Ispirata alla penna di un autore di fantascienza e messa in opera, dai massimi vertici del governo statunitense, per uno dei bisogni più essenziali immaginabili: garantire, attraverso acque particolarmente turbolente, la propria stessa sopravvivenza.
É ricorrente nella storiografia moderna il concetto secondo cui la creazione della bomba all’idrogeno nel 1952 abbia contribuito sensibilmente alla creazione dello stato d’equilibrio identificato on l’acronimo MAD (Distruzione Mutua Assicurata) garantendo de facto l’impossibilità di muoversi militarmente contro i propri rivali nazionali più forti, pena l’innesco di una situazione di conflitto a seguito della quale, con la massima probabilità, sarebbe stata obliterata la maggior percentuale della popolazione umana. Il che deriva in effetti dalla cognizione ottimistica, sostanzialmente corretta, secondo cui i potenti del mondo siano maggiormente inclini a preservare piuttosto che distruggere, difendere piuttosto che dimostrare a tutti la propria superiorità, indipendentemente dalle conseguenze a cui ciò potrebbe portare. In tale ottica interpretativa, ergo, non soltanto il conseguimento di una difesa perfetta potrebbe costituire il primo passo verso il sovvertimento di uno stato di equilibrio, bensì l’effettivo gesto ostile verso tutti coloro che dall’altra parte del “muro” (per non parlare del vero e proprio Muro) erano intenti a contare le proprie testate come fossero pillole contro una malattia impossibile da guarire. E fu proprio quella l’idea di partenza che avrebbe portato Ronald Reagan, il 23 marzo del 1983, a dare inizio al programma SDIO (Strategic Defense Initiative) passato alla storia maggiormente con il termine derogatorio del senatore democratico Ted Kenney, progetto “Guerre Stellari”. Nient’altro che un sogno comparabile a quello attuale di Donald Trump, che avrebbe creato su carta “il quarto comando delle Forze Armate” per difendere lo spazio da eventuali attacchi portati dalle altre superpotenze globali; finalizzato principalmente al tempo, così come adesso, all’eventuale intercettazione di missili lanciati dall’arbitraria parte orientale del mondo. Un qualcosa che avrebbe richiesto, imprescindibilmente, la versione maggiormente pratica di una porta d’accesso alle alterne strade delle orbite soprastanti…
Dal punto di vista estetico, il mezzo ipotizzato nel 1989 dall’ingegnere della McDonnell Douglas, Max Hunter ed a quanto pare con il contributo indiretto dello scrittore e polimata Jerry Pournelle, autore di molti romanzi di genere assieme al celebre Larry Niven, somigliava essenzialmente al proiettile di un ponderoso fucile anticarro. Espressione pratica delle cognizioni necessarie all’epoca per creare un velivolo SSTO (Singolo Stadio Fino all’Orbita) esso venne presentato al vice-presidente di George H. W. Bush e capo del Consiglio Nazionale per lo Spazio Dan Quayle, ottenendo subito una riposta di tipo chiaramente positivo. Appariva in effetti assolutamente innegabile che al fine di mettere in orbita contromisure valide a intercettare eventuali missili o satelliti sovietici, dovesse servire un qualche tipo di via d’accesso pratica, economicamente riutilizzabile e funzionale agli spazi iperborei superiori ai confini più estremi dell’atmosfera terrestre. Ed il Delta Clipper X, nome nato dall’amalgama dell’acronimo usato per gli aerei di linea della Douglas (DC) e la lettera X, da sempre usata per gli aerei sperimentali statunitensi, appariva sotto tutti i punti di vista come la risposta ideale ad una simile esigenza: costruito largamente con componenti standard, fatta eccezione per la carlinga stessa e dotato soprattutto dei carrelli, la strumentazione di bordo e una dottrina d’impiego tale da permettergli, a missione compiuta, di salvarsi nella sua funzionale interezza, tornando a posarsi in maniera perfettamente eretta nel punto esatto da cui era partita. Il che gli avrebbe permesso, almeno in linea di princìpio, di partire nuovamente dopo un tempo variabile tra i 3 e i 7 giorni. O almeno, questa era la teoria: perché tutto appare possibile, finché le proprie idee di partenza non si scontrano con gli effettivi problemi dell’impietoso mondo soggetto agli schemi e i capricci della natura.
La prima versione dimostrativa del Delta Clipper, dunque, venne costruita soltanto due anni dopo, per un lancio che sarebbe stato effettuato il 18 agosto del 1993. Si trattava di un prototipo in scala 1 a 3 capace di raggiungere appena qualche migliaia di metri di altitudine, costruito con la collaborazione della Scaled Composites, dotato di enormi flap di atterraggio, sistema di controllo remoto e quattro “zampe” retrattili di atterraggio, fatte funzionare grazie a un sistema pneumatico basato sul gas elio. L’idea d’impiego durante la fase d’atterraggio in effetti, partiva da un concetto piuttosto insolito, che avrebbe visto il dispositivo restare puntato nella direzione di marcia fino alle ultime fasi quando, sfruttando le sue ottime superfici di controllo, si sarebbe voltato infine verso il suolo, al fine di posarsi a terra nella maniera desiderata. Una scelta decisamente contro-intuitiva, laddove mantenersi invertito durante il rientro avrebbe offerto migliori prospettive di assorbimento termico, motivata dal bisogno di una maggiore manovrabilità e rapidità di recupero, considerate essenziali in eventuali futuri scenari di guerra. I voli effettuati nel corso di questa iterazione, dunque, sarebbero stati otto fino a luglio del 1995, quando un atterraggio eccessivamente brusco avrebbe causato la rottura della carlinga esterna, portando il progetto a una temporanea (?) interruzione dei test… Ma il peggio, in effetti, doveva ancora venire.
Accantonato dalla McDonnel Douglas per mancanza di fondi, il DC-X venne quindi acquistato dalla NASA e ribattezzato con la lettera addizionale di “A” (probabilmente per Avanzato), fermamente intenzionata a portare a compimento l’idea di Max Hunter e Pournelle. Profondamente modificato a partire dal 1995, il velivolo venne dotato di serbatoi più capienti e leggeri e un sistema di controllo di volo dalle reazioni più rapide fornito dalla Aerojet, che avrebbe permesso a sole tre persone di mantenere il controllo totale dell’apparecchio. Nell’estate dell’anno successivo quindi, presso la base del Nuovo Messico di White Sands venne finalmente dimostrata la rapidità di reimpiego con un decollo tra il secondo e il terzo della serie a distanza di sole 26 ore. Entro il 31 di quello stesso fatidico luglio, tuttavia, i vertici del comando di missione vollero fare il passo ulteriore di una quarta partenza, destinata ad andare incontro al più irrimediabile dei disastri: una delle zampe di atterraggio, infatti, mancò di estendersi causando la caduta rovinosa del razzo, con conseguente esplosione ed incendio. Che prima di essere spento, avrebbe causato danni tali da impedire una potenziale riparazione futura del mezzo.
Ora la storia dell’esplorazione spaziale, come sappiamo fin troppo bene, è frutto d’innumerevoli fallimenti e qualche eccezionale, rivoluzionario trionfo. Il che permette di comprendere facilmente come la quantità di fondi a disposizione, per tentare ancora e poi di nuovo sulla via di un potenziale margine di miglioramento, risulti semplicemente essenziale per conseguire il tipo di risultati considerati auspicabili nella maggior parte dei casi. E forse si trattò del mutamento politico degli uomini al comando, piuttosto che uno spostamento degli obiettivi a seguito della fine della guerra fredda: fatto sta che il Delta Clipper, a conti fatti, non avrebbe mai più volato a seguito dell’incidente. Lasciando l’eredità dei razzi più volte riutilizzabili nelle sicure mani di un diverso approccio realizzativo, quello di grandi e potenti compagnie private, molto più difficili da sviare nell’attribuzione delle proprie priorità pluriennali. Le quali potrebbero oggi custodire, nella chiara verità dei fatti, le sole chiavi rimaste per avventurarci oltre l’invalicabile porta dei Cieli.