Quando l’arco della nostra esistenza si sarà compiuto, dopo l’annichilimento climatico, il collasso della civiltà, l’espletamento dello spazio cronologico occupato dagli umani sarà giunto a compimento, cosa potremo realisticamente dire di aver lasciato ai posteri di un’altra genesi o distante provenienza? Cemento, vetro, plastica e altri materiali. Ma anche e soprattutto, l’eminente sussistenza di un pregresso ingegno; tutto quello che con grande dedizione al mondo che ci è un tempo appartenuto, abbiamo edificato, un pezzo dopo l’altro, le alte torri, lunghe strade. Le profonde gallerie. Ciò che il sole non illumina, ma testimonia come, fuori e dentro le diverse situazioni, fin da tempo immemore l’umano ha posseduto il dono di nascondere se stesso. Eppur non siamo, in tutto questo, soli.
L’ha scoperto, nel remoto 1893, la figura di paleontologo e geologo Erwin H. Barbour, laureatosi a Yale soltanto due anni prima di venire assunto, con sua gran soddisfazione, per il ruolo di capo-dipartimento dell’Università del Nebraska. Una mansione cui scelse immediatamente di far seguito, al sopraggiungere di ciascun fine settimana, con massicce spedizioni di ricerca, condotte assieme ai suoi studenti, nell’intero territorio dello stato. E non passò parecchio tempo, caso vuole, prima che il museo soggetto alle sue cure si arricchisse d’infiniti fossili di provenienza nota. Ed alcuni la cui esplicita natura, almeno in un primissimo momento, restò largamente misteriosa. Daemonelix: la spirale del demonio. Un’oggetto la cui logica del nome sembrò subito rispondere a un bisogno lungamente dimostrato, di attribuir la mano di Lucifero a qualsiasi cosa fosse in grado di sfuggire a quelle logiche per noi del tutto date per scontate. In parole povere un oggetto solido e profondamente conficcato nel terreno, alto fino a 3 metri, dalla forma del tutto paragonabile a quella di un segmento del DNA umano. Fatta eccezione per l’ultimo e più profondo tratto, posto ad estendersi di lato in senso orizzontale all’apparente fine di costituir la “firma” dell’arcano Belzebù. Così che ben presto, continuando ad esplorare con la sua piccozza e vanga l’area attorno ad Harrison, Nebraska, occupata dai letti prosciugati di una vasta serie di laghi preistorici d’acqua dolce risalenti al Miocene (20 milioni d’anni fa) lo scienziato ritrovò svariati esempi totalmente fuori dal contesto, ai quali dedicò una serie di pubblicazioni per proporre la sua opinione al mondo accademico coévo. Spugne, spugne di lago; strano ma vero? Dopo tutto, se simili formazioni dalle dimensioni paragonabili a quelle di un’albero potevano essere il diretto segno di un qualche tipo d’essere vivente, le alternative apparivano decisamente ridotte. L’uomo continuò dunque, nel corso della sua intera carriera, a tentare vie d’approccio alternative al problema, finché nel 1895 sembrò pensare che dovesse trattarsi di antichi sistemi di radici di una qualche pianta largamente dimenticata, causa il ritrovamento di materiale di origine vegetale al loro interno. Una possibile interpretazione alternativa, nel frattempo, giunse dal collega di Filadelfia Edward Drinker Cope, il quale sembrò pensare da subito che le spirali dovessero essere un qualche tipo di ichnofossile, ovvero residui non diretti del prodotto fatto & finito, piuttosto che il corpo stesso, della creatura di cui costituivano indelebile testimonianza. L’attenzione del mondo scientifico, quindi, si spostò sui resti pietrificati di un primitivo mammifero, ritrovato spesso in prossimità di alcuni dei fossili meglio conservati della regione…
“Improbabile!” Disse fin da subito Barbour: “Assieme ad un’altra spirale, abbiamo trovato lo scheletro di un essere dalle dimensioni paragonabili a quelle di un cervo. Dovremmo quindi pensare che sia stato anche lui, in qualche modo, a produrla?” Eppure l’idea del secondo paleontologo sembrò fin da subito collimare. L’aspetto del roditore, dalla conformazione simile ma più piccola rispetto a quella di un castoro moderno, appariva infatti conforme a quello di una creatura capace di scavare tane sotterranee e sopratutto ulteriori analisi effettuate nel 1895 da Theodor Fuchs, grande autorità statunitense nel campo degli ichnofossili, confermò la presenza di alcuni segni all’esterno delle spirali, potenzialmente lasciati dagli artigli o i denti dell’animale misterioso. Nel frattempo, lui ed altri dubitarono dello stesso concetto dell’esistenza pregressa di antichi laghi nella regione di Harrison, affermando come le tracce di materia vegetale presente all’interno dei fossili derivasse probabilmente dall’immagazzinamento di provviste commestibili da parte della creatura. Il primo ad associare esplicitamente le daemonelices alla specie tassonomicamente identificata come Palaeocastor sarebbe stato invece il ricercatore Olaf Peterson, che aveva raccolto alcuni di questi fossili per il Museo Carnegie di Pittsburgh. Barbour continuò invece tutta la vita a sostenere l’ipotesi che la sua grande scoperta fosse dovuta all’effetto duraturo di un qualche vegetale fino alla sua morte nel 1947, mentre nessun altro tipo di ricerca venne effettuata per altre tre decadi a partire da quel momento. Finché nel 1977 l’esperto di fossili dell’Università del Kansas Larry Martin, lavorando assieme al suo studente Deb Bennett, pubblicò un nuovo studio in cui le spirali venivano identificate come conseguenza di un accumulo di sedimenti da interpretare letteralmente “al negativo” la cui forma stessa sembrò dimostrarsi, quindi, una diretta conseguenza della particolare forma del cranio del piccolo castoro. I cui giganteschi incisivi, una volta ruotati in senso obliquo da un lato, permettevano di scavare il tunnel abitativo con una progressione capace di mantenere l’interno auspicabilmente umido ed altrettanto comodo da abitare. Il tutto con la finalità probabile di proteggersi, per quanto possibile, dalla spietata caccia degli appartenenti al genus Zodioletstes, antichi mustelidi simili a faine, che presumibilmente erano soliti nutrirsi dei castori con estremo trasporto. L’attenzione dedicata da questi ultimi alla costruzione della tana, quindi, ha costituito la base odierna per la teoria secondo cui la specie avrebbe utilizzato una strategia riproduttiva di tipo K (contrariamente a quella r della maggior parte dei roditori) ovvero finalizzata all’investimento e la protezione di un numero limitato di potenziali eredi generazionali. La presenza di radici tanto spesse, nel frattempo, venne finalmente spiegata in maniera soddisfacente: esse erano la probabile risultanza del clima secco del Nebraska, capace di portare le piante alla ricerca di ogni possibile scampolo d’umidità. Come quella contenuta, per l’appunto, all’interno delle ingegnose tane dei castori.
A conclusione della nostra breve disanima della faccenda, non posso fare a meno di citare la più famosa affermazione dell’incredulo Erwin H. Barbour: “Se quanto si trova innanzi ai miei occhi è davvero il prodotto di un geomide, allora non potrebbe che costituire l’immortale monumento allo straordinario ingegno della creatura, capace di disporre le linee di una così perfetta abitazione con tale invariabile precisione e coerenza”. Affermazione da cui derivava necessariamente, almeno secondo lui, che soltanto una pianta come “processo automatico” della natura, avrebbe potuto qualcosa di così regolare e stupefacente. Strana sequenza di pensieri, ma stranamente comprensibile a suo modo! E chissà che gli ipotetici visitatori iperborei del nostro oramai defunto pianeta, in qualche remota epoca futura, non possano finir per pensare lo stesso delle nostre opere immanenti, di cui insistiamo, per qualche ragione, a sentirci particolarmente fieri…