Come plurime diramazioni dell’albero di ciliegio, l’influenza della cultura giapponese si dipana attraverso l’Asia, l’Europa e il resto del mondo. Certe volte, attraversando fasce disallineate e campi trasversali d’interesse, qualche altra, rilasciando un seme che può giungere a portare crescite del tutto inaspettate. Sapevate, a tal proposito, che nell’intera nazione Cecoslovacca, a partire dal 1997, sono state fondate ben 10 differenti scuole di sumo? Svariate delle quali a Praga in Repubblica Ceca, nei dintorni della quale oggi alcuni sognano la futura trasformazione di una fabbrica dismessa in stadio per la pratica di quest’antica arte marziale, nei fatti il primo ad essere edificato fuori dall’arcipelago d’origine, all’altro capo del mondo. Per ragioni la cui analisi, allo stato attuale dei fatti, sfuggono all’umana comprensione. Senza finanziamenti governativi, senza gli incentivi normalmente riservati ad altri sport, specialmente se si tratta di una disciplina olimpica, la complessa arte del combattimento nel dohyō, arena-tempio dalla forma circolare, è prosperata grazie alla passione di un’elite, capace di convincere e portare sotto la sua ala un’intera potenziale generazione di praticanti. Ed è proprio sulla base di una simile struttura, sociale, culturale e fortemente sentita, che ebbe modo di prendere forma l’esperienza personale di Pavel Bojar alias Takanoyama Shuntarō, secondo il nome ricevuto presso il proprio campo d’adozione come uno dei pochi, pochissimi combattenti europei. All’interno di un mondo che al di sopra di ogni altro, nella percezione generalista, sembrerebbe il frutto di un sentire fortemente nazionalizzato ed unico, l’irripetibile conseguenza di una lunga serie di specifiche circostanze. Eppure colui noto come “l’Onorevole Montagna” (significato letterale di taka-no-yama; 隆の山) si spostò in Giappone nell’anno 2000 all’età di soli 17 anni, vincendo un campionato giovanile per riuscire ad esser accettato nella heya di Naruto nella prefettura di Chiba, gestita dall’ex campione assoluto (yokozuna; 横綱) Takanosato Toshihide. Sotto la cui ala protettrice e grazie ai cui insegnamenti, avrebbe stabilito numerosi record molto significativi, senza tuttavia riuscire mai ad accedere alle vette più irraggiungibili di quel ragguardevole consesso di guerrieri.
Ritiratosi quindi nel 2014 all’età di 31 anni, a seguito di una serie di sconfitte sfortunate costategli una grave retrocessione, oggi Takanoyama resta sorprendentemente famoso in entrambi i suoi paesi, incluso quello d’adozione e soprattutto online, dove i video di alcuni suoi combattimenti ritornano virali ad intervalli imprevedibili, spesso accompagnati da sottotitoli quali “Combatti usando la furbizia, non la forza” oppure “Le dimensioni contano, ma solo nella mente”. Per una ragione molto semplice, immediatamente chiara: la strabiliante differenza di dimensioni tra il rikishi (力士) della Repubblica Ceca dal peso di “appena” 98 Kg per 1.87 cm di altezza e i suoi avversari, spesso in grado di sfiorare i 200 Kg. Questo perché come in molti sanno, il sumo non ha divisioni per categorie di peso, ragion per cui attraverso i secoli la fisicità considerata più desiderabile è stata considerata quella in grado di abbassare e stabilizzare il più possibile il baricentro umano, impedendo all’avversario di avere la meglio con la semplice forza bruta dei propri ferrei muscoli nascosti sotto gli strati di adipe rosato. Detto questo e nonostante tutto, in epoca moderna c’è stato un certo numero di campioni capaci di violare le regole di questo assunto, dimostrandosi perfettamente in grado di supplire all’assenza di peso con la propria prontezza di riflessi e tecnica personale. Personaggi in mezzo a cui figura, a pieno titolo, l’europeo Takanoyama…
Ancor prima di assumere il suo soprannome di battaglia quindi Pavel Bojar, da studente di liceo, aveva lungamente praticato nella sua città natìa di Praga l’arte marziale del judo, prima di approdare presso la rinomata palestra del sumo di Jaroslav Poříz, fondata poco dopo la fine dell’egemonia sovietica e con l’aiuto di ex-lottatori provenienti dal Giappone stesso. Un luogo presso cui avrebbe appreso, con evidente predisposizione personale, le complesse tecniche dell’unica forma di competizione battagliera in cui un minimo errore può costare la vittoria, portando all’effettiva ricerca del più perfetto controllo dinamico del proprio corpo attraverso quelli che diventano, nella maggior parte dei casi, pochi attimi cruciali di scontro. Una volta trasferitosi, come dicevamo, in Giappone, il ribattezzato (si fa per dire) Takanoyama entrò nella scuderia di Naruto con il rango minimo di Jonokuchi (序ノ口) generalmente associato allo svolgimento di compiti mondani e privilegi ridotti, dovendo quindi accontentarsi di dormire sul pavimento della palestra mentre faceva del suo meglio per apprendere la lingua e cultura giapponese. Una situazione destinata ben presto a cambiare con il suo debutto ufficiale nel 2001, formato da una serie di vittorie nei tornei capaci di garantirgli il raggiungimento del grado di sandanme (三段目) due scalini più elevato nel giro di due soli anni. Ma la vera svolta sarebbe giunta nel 2004, con il raggiungimento della terza divisione dalla vetta, makushita (幕下) compiendo in tal modo il primo passo verso il rango informale di sekitori (関取) o lottatore di sumo professionista. Per iniziare, quindi, la più dura battaglia della sua vita fino a quel momento, trovandosi a impattare contro il muro dei 28 jūryō (十両) o rikishi della seconda categoria, immediatamente sconfitti nel 2008 per accedere alla categoria superiore dei makuuchi (幕内) formata dai 42 più forti lottatori del Giappone. Per poi trovarsi retrocesso nuovamente a jūryō, una classe ai margini della quale sarebbe riuscito a gravitare ed essere a più riprese annoverato nel corso dei sei anni successivi di duri combattimenti.
Sempre svantaggiato a causa del suo peso ridotto, e questo nonostante i molti tentativi fatti di aumentarlo grazie a un regime d’alimentazione particolare consistente nel consumo di lauti pasti notturni, Takanoyama sarebbe quindi diventato famoso per il suo impiego riuscito di tecniche miste mutuate dal judo e altre arti marziali, giungendo a dominare almeno 37 diverse kimarite (決まり手) o “mosse vincenti” spesso in grado di sorprendere e ingannare il proprio avversario. Un particolare espediente chiamato henka (変化) sarebbe quindi stato associato più volte al suo modo d’agire, consistente nello spostarsi rapidamente di lato durante l’impeto dell’assalto iniziale, per poi spingere il rivale con enfasi fuori dai confini del ring; operazione, questa, generalmente considerata poco osservante dello “spirito guerriero” del sumo o ideale fair-play, benché permessa dalle regole ed almeno nel suo caso, considerata spesso giustificata dalla differenza di dimensioni nei confronti dell’aggressore.
Le cose avrebbero quindi preso una piega indesiderabile verso il novembre del 2011, quando uno scandalo nato all’improvviso vide Takanoyama implicato nell’impiego di una certa quantità d’insulina originariamente prescritta al suo maestro purtroppo defunto, nel tentativo malriuscito di far incrementare il proprio appetito e peso. Una scelta per il quale venne duramente redarguito, benché fosse pronto ad ammettere il proprio errore anche in assenza di effettivi risultati apprezzabili da parte del suo metabolismo, semplicemente troppo efficiente anche a fronte del ferreo regime d’attività fisica. Esattamente tre anni dopo quindi, nell’estate del 2014 ed a seguito di una serie di incontri particolarmente sfortunati, il lottatore avrebbe annunciato il proprio ritiro con la cerimonia rituale del danpatsu-shiki (断髪式) consistente nel taglio del nodo superiore dei capelli e la cancellazione dagli elenchi ufficiali dei lottatori.
Ritornato quindi in patria con una rinnovata conoscenza del giapponese, di cui avrebbe fatto in seguito un impiego professionale, il “leggiadro” fulmine del dohyō non avrebbe più dato dimostrazione del suo stato di prontezza ed agilità di molto superiori alla media. Lasciando tuttavia una traccia indelebile nel mondo che era giunto prossimo a dominare, oltre a un’immagine pubblica, notevolmente pervasiva, attraverso le pieghe spesso imprevedibili del Web. Che pur non sapendo esattamente che cosa sia e in che consista il sumo, risultano sempre pronte ad apprezzare l’universale narrazione sportiva dell’underdog.