É una fondamentale realtà per ogni essere vivente, la maniera in cui, nella maggior parte delle situazioni, l’unione costituisca un sinonimo di forza. Quella tra le cellule dell’organismo, un tempo concepite dai processi naturali come monadi del tutto indipendenti, finché la necessità di sopravvivere, ed in qualche modo prosperare, non ne ha enfatizzato determinate funzioni di caso in caso, rendendole complementari. Ciò detto, esiste il caso di un sistema addirittura più efficiente: quello che si genera grazie al processo di adesione. Compatta, indivisibile corrispondenza, tra creature totalmente indipendenti in linea di principio, che del resto formano colonie, proprio perché questo basta a renderle del tutto impervie al più terribile dei loro avversari: il tempo. Pensate per esempio all’alveare, che rinasce identico al principio delle singole stagioni; oppure alla natura del corallo, scheletro rosato di una plurima e minuscola collettività; ed ancora a certi tipi di coltura batterica, con protisti o microbi perfettamente in grado di clonare se stessi ad infinitum. Ma è soltanto unendo un simile princìpio alla natura estremamente longeva del mondo vegetale, che possiamo giungere alla casistica del tipo più ESTREMO di creatura. Quello che troviamo qui rappresentato grazie all’esemplare notevolmente imponente di Yareta, o Azorella compacta che dir si voglia, che forse al momento in cui Ottaviano Augusto concentrava su di se tutti i poteri della Repubblica, giaceva perfettamente identica ma un po più piccola, nelle sabbiose distese degli alti deserti andini. A cosa ci è possibile, del resto, far corrispondere il concetto di “individuo” se non la specifica continuazione di una singola cosa, con perfetta identità di luogo, aspetto e funzionalità… Come la verde coperta che ogni cosa ricopre, crescendo alla notevole (!) velocità di 1,5 cm l’anno. Eppure, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare, la yareta non è affatto un muschio, non è un semplice licheno, bensì un’effettiva pianta legnosa capace di fiorire e far frutti in primavera ed estate, fatti giungere a maturazione nel corso di circa 15 settimane. Imparentata, alquanto sorprendentemente, alle ombrellifere (Apiacee) come il prezzemolo e la carota, in forza della tipica vastità omni-inclusiva della tassonomia vegetale. Ma le somiglianze, come potrete facilmente immaginare, sono tutt’altro che evidenti, data la natura straordinariamente estrema del suo habitat d’appartenenza: le pendici e le asperità del Sudamerica, tra Cile, Perù e Argentina, dove l’assenza di piogge regolari è superata soltanto dal soffio gelido del vento proveniente dal Pacifico, in grado di devastare qualsivoglia tentativo di sopravvivenza vegetativa.
A meno, s’intende… Che questo riesca a svilupparsi in maniera tanto densa e compatta, frutto della collaborazione collettiva, da riuscire a trattenere al tempo stesso calore ed umidità, raggiungendo uno stato d’aggregazione in grado di superare qualsiasi difficoltà. Persino il passaggio dei secoli ulteriori, superati per durata l’uno dopo l’altro, come fossero i lombrichi nel fertile suolo di un’impossibile foresta delle Ere…
Nota ai popoli andini da molto prima della venuta degli Europei, la yareta (o yarita in lingua Quechua) è sempre stata utilizzata nella medicina tradizionale per le sue proprietà antinfiammatorie capaci di arrecare sollievo ad infortuni, infezioni e dolori articolari. Il suo frutto non commestibile in particolare, un piccolo schizocarpo secco e composto di segmenti richiusi l’uno a ridosso dell’altro, veniva triturato e utilizzato al fine di preparare degli impacchi, stimati per la loro presunta capacità di curare ogni tipo di afflizione al sistema muscolare umano. Ma la principale utilità della pianta per queste società montane, nate in un luogo in cui la vegetazione risulta inerentemente scarsa, è stata quella di agire come combustibile all’interno delle abitazioni e nelle profonde miniere di salnitro della regione, dove serviva anche ad asciugare il minerale. Nonché persino, in epoca più recente, nelle caldaie dei primi treni a vapore, data la capacità di generazione termica capace di raggiungere il 50% del carbone, dovuta all’estrema densità dei suoi steli e foglie cerate e resinose, che la rendono estremamente pesante in proporzione allo spazio occupato. Pratica, quest’ultima, fortunatamente accantonata nell’epoca moderna data la sua scarsa sostenibilità, proprio per la lentezza con cui queste piante possono crescere e riuscire a rigenerarsi. Benché servano tutt’ora, in circostanze dalla natura decisamente più spontanea, come foraggio per i greggi di capre condotti fin lassù a pascolare.
Detto ciò, se lasciata alle proprie macchinazioni, c’è ben poco che possa minacciare l’effettiva sopravvivenza della yareta. Capace di assumere, nel corso dei lunghi anni, l’aspetto di una letterale coperta verde sopra specifici macigni o altre caratteristiche del paesaggio, che gradualmente scompaiono sotto lo strato composto dalle sue singole unità costituenti. Che una volta osservate da vicino, si dimostrano effettivamente come delle vere piantine potenzialmente indipendenti, composte da una rosetta di cinque foglie a disposizione circolare, al centro della quale, nelle giuste circostanze, può crescere l’odorosa offerta agli artropodi necessari per prosperare. Pur essendo ermafrodita ed autofertile infatti, ciascun fiore di yareta dipende ancora in maniera significativa dal passaggio occasionale d’insetti capaci di fecondarla, evento a seguito del quale la singola “cellula” riesce a farsi affiancare dai propri simili, costituendo la fondamentale barriera di cui ha bisogno per sopravvivere contro la furia inclemente degli elementi. Ogni qualvolta in cui, quindi, la battaglia viene perduta non per questo succede lo stesso alla guerra, con singole colonie di Azorella che possono mostrarsi completamente secche e grigiastre da un lato, pur mantenendosi in perfetta salute laddove il sole ha battuto di meno, oppure il vento non è riuscito a penetrare. É stato anzi dimostrato come la presenza di una parte secca possa talvolta finire per incrementare la fertilità del suolo, a immediato vantaggio della sua parte ancora in vita. Per quanto riguarda invece l’adattamento al sito di crescita, come avviene per inciso nel caso della maggior parte delle piante capaci di sopravvivere nel deserto dell’Atacama, questo essere risulta particolarmente versatile, senza particolari preferenze in materia di natura acida, alcalina o neutrale. Molto spesso, d’altra parte, la yareta cresce sopra i macigni di origine vulcanica che contribuiscono a dagli la caratteristica forma globulare. Benché sarebbe certamente riduttivo ed ingenuo, immaginare la pianta come uno strato sottile di verde capace di caratterizzare dal punto di vista cromatico simili oggetti soltanto per quanto concerne la superficie; eventualità o ipotesi, quest’ultima, subito screditata nel momento stesso in cui si provi a toccare uno degli esemplari più estesi, dotati di una loro consistenza particolarmente caratteristica e riconoscibile al tatto ancor prima che l’avidità umana possa tentare di trasformarlo in carburante.
La yareta risulta essere del resto altrettanto adattabile alle altitudini più diverse, crescendo senza problemi dal livello del mare fino ai 5.200 metri delle pendici rocciose dalle più elevate pendenze e livelli d’esposizione. Nella sostanziale occupazione di una nicchia totalmente esclusiva, in cui la competizione per le limitate sostanze nutritive del suolo risulta essenzialmente già vinta in partenza, per precedente dipartita di ogni potenziale entità concorrente del consesso vegetale. Per non parlare della totale, straordinariamente invidiabile assenza di erbivori in cerca di cibo.
Oggi protetta da normativa inclemente proprio a vantaggio dei suoi utilizzatori più inclementi, gli esseri umani dai mille bisogni e desideri, la yareta può ritornare finalmente all’eterna prosperità che l’evoluzione gli ha concesso di possedere. Ma è importante, persino fondamentale notare, come la maggior parte dei singoli individui che sono in vita, siano in effetti gli stessi di allora. Poiché proprio questa è la forza innegabile di (certi tipi di) piante. Per cui gli anni corrispondono a minuti. E i più importanti e invincibili imperi agli antipodi, son poco più che note a margine, dinnanzi alla sofisticata percezione dei mutamenti geologici e climatici dell’interno, indifferente pianeta.