Ci sono isole presso cui, una volta sbarcato, il turista si aspetta di essere guarnito da una ghirlanda di fiori, prima che i presunti indigeni (talvolta, stipendiati per essere tali) lo accompagnino al lauto pasto d’accoglienza previsto dal suo programma di viaggio. E poi c’è Sumba nell’Indonesia occidentale, melange di etnie di tipo melanesiano e austronesiano, dove appena fuori dal villaggio turistico, le antiche tribù si scontrano con metodi e armi tradizionali, sia durante che al di fuori del periodo annuale previsto per la grande Battaglia, come facevano ben prima che qui giungesse la Compagnia delle Indie Orientali. Ha una fama unica al mondo questo luogo, in effetti, per lungo tempo posto a margine delle mappe fatta eccezione per l’esportazione di legno di sandalo e riuscito a trasformarsi, in modo particolare a partire dagli anni ’80 e ’90, in una delle capitali mondiali dell’escursionismo avventuroso, inteso sia come inoltrarsi verso l’entroterra di una terra brulla, selvaggia e piena d’insetti, che venire direttamente a contatto con una cultura fortemente rappresentativa nonché per certi versi, capace di dimostrarsi altrettanto brutale. In occasioni come quella dell’importantissima festa annuale della Pasola (letteralmente “Lancia” dal termine di derivazione sanscrita sula) culminante nella discesa in campo, tra febbraio e marzo, di una significativa percentuale di tutti gli uomini abili al combattimento per il rituale che dovrebbe, idealmente, favorire la riuscita di un difficile raccolto. Ed è proprio come frutto della loro giostra spietata, compiuta da svariate centinaia di partecipanti in groppa ad altrettanti esemplari della razza di cavalli locale, il kuda-Sumbawa, che idealmente il sangue umano dovrebbe scorrere copioso sopra l’erba della sacra terra. Inducendo essa, o il grande spirito che la supervisiona, ad assistere gli agricoltori e respingere locuste, parassiti ed altri artropodi invasori.
Detto ciò naturalmente, al giorno d’oggi la questione è stata almeno parzialmente rivisitata, sostituendo le lance in questione con dei semplici bastoni senza punta, mentre il potenziale sacrificio dei baldi giovani colpiti ogni anno ha trovato la sostituzione di galline, polli e maiali ritualmente fatti transitare a miglior vita, poco prima dei banchetti che accompagnano, ogni anno, le celebrazioni. Eppure sarebbe totalmente ingenuo pensare, come avviene per altre particolari discipline appartenenti alla categoria dei blood sports, che l’impegno, lo sforzo e la sofferenza implicate da un simile evento siano in qualsivoglia modo meno autentiche di quanto sembrano, anche vista la presenza reiterata ed essenziale dei servizi di pronto soccorso, assieme alle forze che possano ristabilire l’ordine, nel caso niente affatto inaudito di una o l’altra parte che si lasci prendere la mano, iniziando a fare un po’ troppo sul serio.
Venendo quindi allo svolgimento propriamente detto della faccenda, ogni anno la Pasola ha inizio, o per lo meno dovrebbe averlo, alla specifica comparsa sulle coste dei vermi oceanici cosiddetti nyale, in effetti dei rappresentanti della specie del Pacifico Palola viridis, strettamente interconnessi alla vicenda leggendaria posta idealmente all’origine di un simile conflitto. Benché l’impiego del condizionale possa dirsi oggi necessario, vista l’attenzione comprensibile all’aspetto del turismo contemporaneo, capace di trovare grande beneficio nell’osservazione di un calendario esatto e prevedibile, durante quella che è per l’isola probabilmente la stagione maggiormente redditizia. Benché sussistano, in chiara evidenza, elementi assai più rispettosi della tradizione…
La Pasola propriamente detta viene quindi organizzata, tradizionalmente, dalla specifica classe sociale degli sciamani rato, detentori di una linea privilegiata di contatto con Marapu, lo spirito che ha creato e continua a nutrire il mondo. Saranno quindi proprio questi individui dai riconoscibili copricapi rossi, ogni anno, a indire il bando del combattimento, in genere raccolto dalle due comunità ideali del villaggio “delle colline” e quello “della spiaggia” (le cui esatte corrispondenze geografiche possono variare) attraverso una serie di schermaglie di riscaldamento ritualizzate e tenute possibilmente in segreto, tra gli alti tetti delle riconoscibili capanne locali. Fino al raggiungimento del vero e proprio culmine della festa, quando dopo una serie di banchetti capaci di durare settimane, si organizza l’effettiva discesa in campo dei due interi schieramenti contrapposti, ciascun membro in sella al suo destriero e armato di un gran numero di dritti, flessibili e potenzialmente letali bastoni. Ora il pony di Sumba, poiché questa è la categoria convenzionale in cui viene inserito un così piccolo cavallo, presenta le caratteristiche di una bestia compatta ed agile, tradizionalmente fatta discendere dal ceppo degli equini di Sumatra, a loro volta derivati da quelli delle orde conquistatrici di Gengis Khan. Il che sembra donargli, ancor più di ogni altra cosa, la capacità di affrontare il confronto senza nessun tipo di paura, a patto che il proprio cavaliere sia altrettanto pronto a rischiare l’impatto a gran velocità delle temibili lance avversarie. Così senza un vero e proprio segnale d’inizio, le diverse categorie divise per età ed esperienza si affrontano a turno nell’esatto centro della radura, entro il cerchio formato al tempo stesso dai propri colleghi, connazionali e spettatori giunti da terre lontane. Con l’unica eliminazione considerata onorevole di una caduta da cavallo, le cui conseguenze, naturalmente, possono variare. Posso ad ogni modo assicurarvi come ancora oggi, l’eventualità che il sangue umano bagni tale arena improvvisata possa definirsi tutt’altro che raro.
Il tutto, vuole la leggenda, al fine di commemorare il sacrificio di una principessa dal nome ormai dimenticato, per l’amore della quale gli uomini dell’isola avrebbero un tempo dato inizio ad una sanguinosa guerra (uhm… Dove ho già sentito questa storia?) A seguito della quale proprio lei, rattristata da una tale crudeltà e violenza, avrebbe scelto di lasciare il mondo degli umani gettandosi nell’oceano. Soltanto per trovarsi trasformata, grazie all’intercessione di Marapu, nel verme nyale. Il che lascia desumere d’altra parte un finale alquanto amaro, visto come il ritorno annuale dei suo discendenti sia solito dare l’inizio non soltanto alla loro copiosa e festiva consumazione all’interno di numerosi piatti locali, ma anche un’ulteriore prolungamento dell’antico conflitto umano. Simili credenze legate al culto animista degli antenati, ad ogni modo, sono oggi mantenute a margine di quello che è più che altro un rituale sociale in grado di trascendere la propria religione e appartenenza a un gruppo etnico piuttosto che l’altro, risultando almeno in linea di principio aperto a chiunque abbia intenzione di parteciparvi. Come esemplificato, tra l’altro, dalla presenza di una significativa minoranza di religione cristiana tra le circa 755.000 persone che vivono sull’isola, disseminata attorno alla grande cittadina portuale di Waingapu, causa la missione gesuita proprio qui edificata nell’ormai remoto 1866.
Il mantenimento ininterrotto di una tradizione come la Pasola, dunque, può avere molte ragioni: la credenza ancora ferma negli stessi princìpi che hanno portato alla sua originaria costituzione, il bisogno di mantenere salda una cultura oggi sottoposta alle continue minacce e seduzioni della modernità, il poter disporre di un fondamentale rito di passaggio tra l’età giovanile e quella adulta, così come l’ancora praticata costruzione di tombe megalitiche su questa terra rappresenti, nei fatti, un tratto culturale unico al mondo. Risulterebbe ad ogni modo assai difficile, al giorno d’oggi, desumere quali e quanti tra i partecipanti nel brutale rito di questa particolare terra d’Indonesia ancora fermamente credano nella sua sacra funzione religiosa, conduttiva all’ottenimento di un ottimo raccolto. Benché sarebbe certamente riduttivo, ancorché superficiale, voler ridurre tutto questo ad una mera attrazione per turisti, come idealmente viene fatto per il dono tradizionale delle ghirlande lei ai visitatori del distante arcipelago hawaiano. Perché ogni isola, sostanzialmente, è il frutto indivisibile di un ricco repertorio di fattori. Ciascuno altrettanto utile, nonché profondamente funzionale, al continuo aggiornamento di un’identità indivisa.