Se avete visto un film horror della serie Ju-On e The Ring, se avete giocato a The Siren o Silent Hill… Se, quando vi trovate dinnanzi a una schermata di selezione del personaggio, tendete a spostare il cursore sul ritratto più bizzarro e divergente dalle norme estetiche comuni, come Voldo di Soul Calibur, con le movenze inumane e la carnagione pallida di un morto vivente… In un modo oppur l’altro, potreste averla conosciuta. Di certo, sarebbe quanto meno riduttivo voler limitare le conseguenze della danza d’avanguardia moderna giapponese Butoh o Butō (舞踏 – termine un tempo usato per riferirsi al valtzer occidentale) alle sue diramazioni più prosaiche nella cultura Pop del Post-Moderno, benché risultino proprio queste, di primo acchito, a preservarne l’impatto quando viene messa in mostra, descritta o analizzata per il pubblico ludibrio, online. Poiché l’espressione di un sentire fortemente personale, quando potenziata tramite la disciplina, l’abnegazione e lo studio dei processi d’espressione, come fosse l’estensione di un segmento lungo l’asse matematico dei sentimenti, può diventare l’obiettivo di svariati spunti d’analisi, ciascuno egualmente significativo al fine di comprenderne i segreti più nascosti ed occulti. E non ci vuole affatto molto, dopo essere venuti a contatto con l’esibizione del ballerino svizzero Imre Thormann presso il tempio di Hiyoshi Taisha a Shiga che costituisce attualmente l’esempio più guardato di YouTube, con oltre 2 milioni e mezzo di visualizzazioni, per comprendere l’illimitata profondità di questa caverna, tortuosa via d’accesso a un modo estremamente specifico di approcciarsi ai contenuti veicolati dal movimento del corpo umano. Volendo quindi tentare di azzardare una descrizione in linea di massima di quella che si è trasformata, attraverso gli ultimi 60 anni, in una vera e propria filosofia di vita oltre che un canone della danza, potremmo riassumere le caratteristiche del Butoh per così dire “classico” nel tormento, visibilmente apprezzabile, dell’individuo sul palco che giunge drammaticamente a contatto con le implicazioni più profonde dell’esistenza. Le quali includono, in aggiunta alla mortalità della carne, l’insoddisfazione dell’anima e uno stato d’infelicità pressoché costante, come esemplificato dalla forma prototipica di questa forma d’arte, definita in origine ankoku butō (暗黒舞踏) ovvero letteralmente “danza dell’oscurità”. Verso un processo che tende ad includere tra le altre cose: la nudità ed il corpo tinto di un colore chiaro o riflettente, tremori, scatti improvvisi, movimenti simili a quelli imposti da una forza esterna, come l’istigazione forzata da parte di spiriti o entità divine, o ancora la messa in scena di situazioni impossibili, come la trasformazione intera o parziale dei propri arti in creature del mondo naturale. Ciò detto e come succede nella maggior parte dei movimenti di avanguardia, indipendentemente dalla loro nazionalità, non esiste un preciso repertorio fisso che possa identificare una perfomance come “allineata” al concetto di Butoh, in quanto il rifiuto della standardizzazione è alla base stessa della sua nascita, originariamente e convenzionalmente fatta risalire al periodo, nel secondo dopoguerra, in cui le giovani generazioni giapponesi rifiutavano al tempo stesso l’influenza possente dei paesi occidentali nei confronti di ogni aspetto dell’arte nazionale senza voler ritornare, al tempo stesso, alle rigide modalità espressive del teatro Noh, ritenuto comprensibilmente inadatto alle implicazioni in rapido e continuo cambiamento dell’universo contemporaneo.
Per questo il Butoh, ancor prima di diventare il sinonimo di una certa mostruosità trascendentale e in qualche modo digitalizzata causa l’attuale superficialità dell’arte, ha sempre posseduto uno stile diretto e terreno, idealmente privo di raffinatezza e grazia, ma soltanto perché teso in ogni suo atomo a coinvolgere lo spirito di chi si trova ad osservarlo…
Approcciarsi alla storia del Butoh non può in alcun modo tralasciare la menzione di due importanti figure che ne plasmarono e successivamente cavalcarono l’onda possente, definite tradizionalmente il cuore e l’anima del movimento. I loro nomi: Tatsumi Hijikata, teorico e ideatore (1928 – 1986) ed il ballerino pluri-centenario Kazuo Ohno (1906-2010) ciascuno egualmente importante nella creazione di un corpus di riferimento, benché profondamente diversi nelle finalità e lo scopo ultimo del loro proprio gesto d’artista. Il cui notevole incontro durante un festival della danza del 1959 avrebbe letteralmente lasciato senza parole l’intero mondo culturale giapponese pronto a definirli dei pericolosi iconoclasti, mentre su coreografie del primo, il secondo si esibiva nel rappresentare la vicenda la storia d’amore tra due uomini, un giovane e un anziano, al centro del romanzo di Yukio Mishima, Kinjiki (禁色 – colori proibiti) assieme a suo figlio ventiduenne Yoshito Ohno, culminante con la scena eternamente citata di quest’ultimo che schiacciava un pollo tra le cosce, mentre il padre lo inseguiva fuori dalle luci del palcoscenico nella più remota e misteriosa oscurità.
Ed è proprio questo il tema, dell’analisi sociale ed un commento ai limiti della morale irrigidita, che ricorre nelle piéce di Hijikata, laddove il suo collega ed amico ha lungamente dato un maggior spazio al sentimento implicito e la spontaneità di un semplice essere umano, a partire dalla celebre Danza delle Meduse, incentrata su di una sua esperienza durante la lunga prigionia sperimentata negli anni della guerra, nel corso della quale vide coi suoi stessi occhi un gruppo di soldati, ormai sfiniti per la fame e gli stenti, cadere fuori dalla barca e dentro un mare infestato dagli esponenti ad ombrello del phylum Cnidaria. Verso il raggiungimento di un approccio visuale che risulta essere, nella maggior parte dei casi, naturalmente più avvicinabile dall’esterno e senza una preparazione contestuale sulla storia e la cultura del paese del Sol Levante. In aggiunta quindi agli stilemi divergenti dei sui due fondatori, il movimento artistico del Butoh si sarebbe ben presto arricchito d’innumerevoli variazioni e correnti periferiche, ciascuna portata avanti da un diverso gruppo dei rispettivi discepoli e perfezionata attraverso anni d’esercizi e discussioni gestuali tra le parti. Mantenendo comunque sempre al centro dell’intera questione un profondo stato meditativo rivolto verso l’interno di se stessi ed il proprio corpo, che viene occasionalmente paragonato all’intenzione di azionare direttamente il proprio sistema nervoso, senza ricorrere all’istintiva trasformazione della volontà in gesto. Nelle reinterpretazioni occidentali di questa danza, d’altro canto, vengono generalmente rifiutate tutte le posizioni codificate dai due maestri giapponesi oltre all’impiego del trucco di scena, sostituendo tali elementi con l’improvvisazione e immediatezza che deriva da un particolare stato d’animo, o condizione transitoria ed impossibile (gli esercizi usati possono ad esempio includere quello del “ramo che cresce da una tempia” oppure “la camminata sui carboni ardenti”). Detto questo e in ultima battuta, tuttavia, il Butoh non sembra mai prescindere da un certo stato di tormento intimo o una vera e propria sofferenza, per il conflitto vissuto tra due stati contrapposti ovvero il letterale passaggio artificialmente prolungato tra lo stato del bruco e quello della farfalla.
Scienza infusa e filosofica che par talvolta andare oltre il mero intento comunicativo, il Butoh è quindi stato trasformato nel corso degli anni in qualcosa di evanescente e inafferrabile, talvolta trasversale nelle sue profonde implicazioni meno apparenti. In un famoso aneddoto legato alla storia della danzatrice Hiroko Tamano, in cui ella si trovò nel 1989 a dover rispondere a un’intervista in inglese presso la Zellerbach Hall di Berkeley, l’artista decise piuttosto di mandare una propria studente recentemente acquisita a rispondere alle numerose domande, tra cui quella fondamentale di “Cos’è il Butoh” benché quest’ultima, in effetti, non avesse nessun tipo di strumento funzionale a poter dare una risposta informata. Ed ecco dunque la risposta, data tra le righe: anche e soprattutto l’ignoranza, può essere il Butoh.
Nonostante o forse proprio in funzione di ciò, per chi ha gli occhi bene aperti, alcuni elementi facenti parte del suo canone più o meno accettato di quest’arte misteriosa ricompaiono nei momenti più diversi all’interno della cultura globalizzata dei nostri giorni, assieme agli altri significativi contributi dello specifico sentire ed il particolare stile di vita dei giapponesi. E sarebbe semplicemente una rinuncia imperdonabile, per non dire un profondissimo peccato, rinunciare a comprenderne almeno in parte l’implicazione di fondo: che nessuno può davvero rinunciare all’Avanguardia, poiché a un certo punto, essa diventerà la base sopra cui saranno edificate le avanguardie future. Ed proprio sopra ciò, al di là di considerazioni ulteriori, che cresce e si contorce il nerboruto arbusto del progresso culturale umano.