Quando lo scorso maggio abbiamo avuto modo di vedere in Tv, per la prima volta dal 1990, la più famosa delle tre cerimonie previste per la posa in essere di un nuovo Imperatore del Giappone, resa ancor più significativa dalla rara abdicazione del suo insigne predecessore, alcuni di noi non hanno potuto fare a meno di tradire un certo senso di sorpresa: dov’era il preciso ritualismo, dove l’arte e tutto il pathos del momento, di una civiltà famosa per il senso delle proprie tradizioni e l’attenzione verso la gestualità degli antenati, notoriamente incline a conservare i più antichi gesti e tutto il loro importantissimo significato? Naruhito semplicemente, in abito del tutto occidentale, riceveva in tale circostanza la spada tagliatrice d’erba ed i gioielli, rigorosamente custoditi all’interno di confezioni tali da renderli invisibili a noi “comuni mortali” (la terza insegna del suo potere, lo specchio divino di Amaterasu, eternamente custodita presso il Santuario di Ise e per questo irraggiungibile persino, per lui). É stato soltanto con il sopraggiungere dello scorso 22 ottobre quindi che le cose hanno iniziato a farsi decisamente più interessanti, con l’opportunità di vedere il nuovo sovrano e sua moglie Masako impegnati nella Sokuirei-Seiden-no-gi (salita al trono) dopo una lenta processione con i rispettivi kimono specifici per una tale circostanza, poco prima che lui iniziasse a declamare il solenne giuramento che compete al suo ruolo. Ma è senz’altro stato nella notte successiva allo scorso giovedì 14 novembre, che il processo di trasformazione di un uomo in effettivo tramite verso il più importante kami (divinità) del paese ha raggiunto quello che potremmo definire, senza ombra di dubbio, il suo momento maggiormente solenne e di gran lunga più sacro.
Sto parlando per l’appunto dell’importantissimo Daijō-sai (大嘗祭) o Grande Festa del Ringraziamento, un episodio rituale che molte testate giornalistiche si sono limitate a definire “segreto” con un possibile senso di sollievo al non dover approfondire una questione tanto delicata, fatta eccezione per le comprensibili proteste da parte dei fautori della divisione tra stato e chiesa, dato il costo stimato superiore ai 22 milioni di dollari. E questo, nonostante il basso numero di documentazioni videografiche effettive concesse sull’argomento. La realtà di una simile scelta di termini tuttavia, nel caso in questione, è che in effetti non c’è proprio nulla in un questo evento, per come si svolge al giorno d’oggi, che sia stato custodito al di fuori dell’opinione pubblica. Essendo esso costituito da una serie di passaggi ben precisi che più che altro, non vengono generalmente discussi in modo approfondito fuori dalle cerchie del palazzo e al tempo stesso, dominato da un momento di raccoglimento interiore che sarebbe stato semplicemente assurdo, in questo o qualsiasi altro paese, scegliere di mostrare per il pubblico ludibrio, dinanzi a telecamere senza un’anima o ritegno. Il rito del Daijō-sai consiste infatti, oltre a una ragione reiterata di proteste di natura finanziaria, il preciso e forse unico momento in cui l’Imperatore si trova al cospetto della sua divina Antenata la Dea stessa, e condividendo con essa un pasto, riceverà da lei le conoscenze necessarie ad assolvere al ruolo che compete alla sua dinastia priva d’interruzioni. Con alcuni rari punti di contatto nei confronti della Comunione cristiana, ma anche l’annuale rito del Niinamesai (新嘗祭) o Ringraziamento per il Raccolto, benché la quantità di passaggi estremamente simbolici ed il ruolo dell’uomo solo al comando lo rendano, in ultima analisi, straordinariamente distintivo. Ridurre tuttavia questo passaggio fondamentale al semplice momento del suo espletamento potrebbe essere una tentazione tale da indurci in errore, dato il suo estendersi, attraverso alcuni fondamentali passaggi, attraverso il passaggio di un intero anno…
Proprio questa, d’altra parte, è la ragione per cui i rituali per l’incoronazione del Tennō (天皇 – Sovrano Celeste) si svolgono in tre parti e non subito dopo la dipartita, o più rara abdicazione di chi aveva ricoperto la sua carica in precedenza: secondo i precisi crismi dell’ancestrale religione di stato, lo shintoismo, gli spiriti divini che presiedono a ogni questione di tale portata hanno propri tempi, dettati come sempre dal ciclo delle stagioni e delle messi raccolte da quella figura tanto importante nelle società preistoriche come quelle derivanti da esse, l’agricoltore. Il cui raccolto, nel secondo mese dell’anno in cui il sovrano accede al proprio metaforico scranno, viene attentamente selezionato per una certa quantità di riso che sia al tempo stesso precoce ed abbastanza perfetto da venire usato durante il rituale del Daijō-sai. Il che avviene a seguito di una divinazione oracolare effettuata mediante le ossa ed i gusci di tartaruga, le cui spaccature dovrebbero permettere di determinare due precisi luoghi, uno situato ad Est e l’altro ad Ovest della capitale, da cui tale pietanza possa essere trasportata presso il sito scelto per il rituale propriamente detto. Luogo corrispondente, per stavolta, ad uno spiazzo corrispondente alla parte Est dei giardini del palazzo imperiale di Tokyo, ove secondo una precisa modalità, sono state erette due strutture temporanee, costituite come templi dai rispettivi nomi di Yukiden e Sukiden. Ora questi ultimi, costruiti unicamente con tronchi di pino grezzo, legno prelevato dal sottobosco, paglia per i tetti e circondati da un’alta recinzione (l’origine, forse, del concetto di “segreto” strettamente interconnesso a tali procedure) risultano creato mediante tecniche di falegnameria ancestrali, completamente prive di elementi metallici come chiodi o viti, ovverosia facendo affidamento sui semplici incastri dei loro singoli componenti, esattamente come il Santuario di Ise ed altri luoghi particolarmente sacri per lo shintoismo. Una volta completata tale fase preparatoria, quindi, ed iniziati i quattro giorni del rituale propriamente detto, l’Imperatore si è recato presso un terzo edificio facente parte del complesso detto Kairyūden, ove sottoporsi ad un particolare bagno purificatore, dopo aver indossato un lungo mantello di cotone bianco definito ama no hagoromo. Quest’ultimo composto, secondo la qualità mimetica della magia, di “sacre piume” capaci in qualche modo di portare in cielo l’anima, e qualche volta addirittura il corpo del sovrano. Completato tale essenziale passaggio ed iniziato il secondo giorno, costui si è avviato quindi verso l’ingresso dello Yukiden camminando su una stuoia che veniva nuovamente arrotolata dopo il suo passaggio, ovvero il primo dei padiglioni dal contenuto perfettamente identico fin da quando sia possibile conservarne la memoria (benché nell’opinione di alcuni studiosi, ciascuno di essi fosse originariamente dedicato ad un diverso kami, o divinità). Fermandosi responsabilmente, prima di guadagnarne l’accesso, al fine di ascoltare una serie di precise benedizioni poste in musica, cantate da rappresentanti dell’antica casta dei kataribe (menestrelli di corte) e i latranti attori con lo scopo di imitare il popolo ormai estinto dei kuzusō, i cosiddetti “uomini cane”. Benché proprio in tale passaggio, più che altro ricostruito sulla base del sentito dire, che il rituale del Daijō-sai mostra la sua principale debolezza, dato il lungo periodo di quasi due secoli successivi al concludersi delle guerre civili (1600) durante cui la casa imperiale fortemente impoverita non fu in grado di effettuarlo, lasciando che molte delle sue componenti trasmesse solamente in forma orale andassero purtroppo dimenticate.
Una volta fatto il proprio ingresso nello Yukiden, quindi, l’Imperatore inizia la serie più importante dell’evento, destinato a ripetersi verso le prime ore della mattina in maniera del tutto identica all’interno del Sukiden, consumando con precise tempistiche il pasto di riso e miglio che starà condividendo secondo la tradizione con la Dea del Sole Amaterasu stessa, le cui porzioni dovranno successivamente essere sepolte presso il tempio di Kamigamo, a nord di Kyoto. C’è un particolare arredo nelle due stanze, tuttavia, il cui esatto significato è andato perso nella nebbia dei tempi: esso è lo shinza (神座 – seggio divino) costituito da tre strati di stuoie tatami con un cuscino e spazio per alcuni irrinunciabili accessori, tra cui un paio di pantofole ed un ventaglio. Ora sull’effettivo ruolo di tale spazio assolutamente non più utilizzato durante il Daijō-sai, molto a lungo gli studiosi si sono interrogati. Poiché il senso in apparenza più probabile, secondo quanto desumibile dalla presenza di simili orpelli in alcuni dei più importanti santuari shintoisti, parrebbe essere “ospitare” in maniera simbolica lo spirito della Dea, affinché quest’ultima possa, dopo aver consumato il riso assieme al suo discendente, riposarsi per qualche tempo prima d’intraprendere di nuovo il proprio viaggio verso il remoto Empireo delle Idee. Secondo una lunga serie di teorici tuttavia, generalmente fatta risalire alla figura del Prof. dell’Università di Tokyo ed autore di numerosi saggi sull’argomento Okada Seishi, lo scopo dello shinza avrebbe potuto essere nei fatti molto più particolare, e per certi versi straordinario. Proprio su di esso, infatti, l’imperatore sarebbe stato chiamato a dormire sotto una coperta rituale (ofusuma) ricevendo quindi in sogno alcune divine profezie, o segreti, in grado di portare a compimento la sua trasformazione in effettivo tramite verso la sapienza degli Dei. Il che potrebbe ricondursi, in via del tutto ipotetica e certamente non vissuta con formalità evidente da un Imperatore dei nostri giorni come Naruhito, al ruolo del sovrano come vero e proprio profeta, proprio per questo degno di portare il peso di un potere senza limiti su di un popolo e la sua nazione.
Concluso quindi il secondo dei due pasti, l’Imperatore farà la sua uscita dal Sukiden, dando inizio a una sontuosa serie di banchetti della durata di due giorni, con letterali centinaia d’invitati, scelti tra i più importanti dignitari e membri del governo giapponese. Ma potremmo chiaramente affermare, a questo punto, che egli non sia più parte di una tale schiatta, avendo assunto dentro il proprio stesso essere un prezioso ed ineffabile frammento di divinità. Il ruolo dell’Imperatore del Giappone, d’altra parte, viene all’estero spesso frainteso. Punto d’incontro in carne ed ossa tra momenti di uno stretto legame con la storia religiosa di questo remoto arcipelago, ed al tempo stesso custode di un cerimoniale che tenta di essere accessibile e familiare, per certi versi ripreso dalle procedure delle case regnanti d’Occidente, egli non è più da molti, e molti, secoli un effettivo capo di stato (fatto eccezione per brevi periodi di… Restaurazione). Eppure si dimostra, ad ogni occasione, un ingranaggio semplicemente fondamentale della complessa macchina culturale che potremmo definire, dall’esterno, come unica e sola produttrice di quel senso d’identità ancestrale, ancora ricco di un profondo e irrinunciabile significato. Perché essere giapponesi vuole dire, persino oggi, abitare nel paese dei moltissimi Dei. Ben più di quanto una nazione d’Occidente possa dire di essere cristiana, o appartenere a un’altra religione della variegata offerta spirituale che tutt’oggi permane. Proprio perché perché shintoisti si nasce. E tali si rimane, indipendentemente dalla figura trascendentale verso cui si scelga di affidare, per le successive trasformazioni della nostra anima, il destino ultimo della nostra transitoria esistenza in Terra.