Un antico detto celebre nel mondo delle arti marziali, recita “Non praticare cento tecniche. Ma metti in pratica per cento volte la stessa tecnica. Soltanto allora, potrai essere un maestro.” Osservazione particolarmente utile in determinate circostanze, come quella di un combattimento letale tra spadaccini: poiché se il tuo avversario, ogni volta, finirà per perdere la vita, perché mai dovresti perder tempo a diventare imprevedibile? Ed esemplificata, nello specifico, nella concezione del combattimento di spada ( 剣術 – kenjutsu) nota come iaido (居合道) consistente nel vincere il confronto con un singolo colpo. Quello vibrato, per l’appunto, durante l’estrazione della propria katana. E se io vi dicessi, adesso, che un simile processo viene messo in pratica tuttora, da persone che sulla sua infinita ripetizione, puntano in un certo senso la propria stessa sopravvivenza, per così dire, professionale?
Da un certo fondamentale punto di vista, si tratta più che altro di uno sport. Ma può andare incontro a molti diversi tipi d’interpretazione: gioco di società, passatempo per bambini… Persino ausilio allo studio pratico della letteratura, come probabilmente nacque, con una serie di regole assai diverse, al vertice di un’epoca in cui scrivere in versi rappresentava il gesto della nobiltà di corte, doverosamente incline a dar sfoggio del proprio privilegio. Ed anche, proprio dato a intendere dal suo nome attuale, una traslitterazione quasi diretta, secondo il sistema fonetico nazionale del termine olandese per “carte da gioco”, il gioco più semplice che sia possibile fare con due mazzi di carte in qualche modo simili o connesse tra di loro, disposte in fila e poi pescate in simultanea, nel tentativo di battere sul tempo il proprio avversario. Non è difficile nei fatti dare un senso alle implicazioni della scena: due persone siedono alla giapponese l’una di fronte all’altra sul tatami, con espressione drammaticamente seria e cinquanta carte da gioco ordinatamente situate in due gruppi distinti nello spazio tra le loro ginocchia. Una terza, poco distante, pesca la prima carta del suo mazzo, iniziando a declamarne con voce stentorea il contenuto; i due avversari, quindi, si lanciano in avanti, nel disperato tentativo di prendere quella corrispondente prima della loro controparte. Ciò risulta essere, nel senso maggiormente basilare, la versione competitiva del gioco noto tradizionalmente come “Cento poeti, una poesia ciascuno” (Ogura Hyakunin Isshu – 小倉百人一首) cui generalmente ci si riferisce, per semplicità espressiva, come “carte delle poesie” (Uta-Garuta – 歌ガルタ) o ancor più brevemente, karuta. Benché ovviamente, ci sia molto, molto altro da considerare: innanzi tutto la maniera in cui il lettore stesso debba possedere uno specifico addestramento e inclinazione, a leggere le proprie cento carte “da leggere” (yomifuda) con voce stentorea e particolarmente precisa, enfatica e nel tempo stesso priva d’inflessione eccessivamente prevedibile o stereotipata. Questo perché il contenuto di tali elementi d’importanza primaria altro non è, in effetti, che un componimento in versi scritto tra il nono e il dodicesimo secolo da importanti personaggi della letteratura di quel paese. Mentre i due concorrenti della partita, dal canto loro, dovranno aver memorizzato puntualmente, negli esatti 15 minuti concessi prima dell’inizio, la posizione scelta per le 25 carte dalla propria parte del proprio “campo” e quanto messo in pratica nell’altra metà dello stesso, per un totale di 50 carte “da prendere” (torifuda) recanti, ognuna, la metà finale delle stesse poesie. Avrete certamente notato, a questo punto, una disparità nei rispettivi totali: ciò in quanto, al fine di rendere la partita maggiormente interessante, ogni volta vengono schierate solo esattamente la metà delle torifuda, mentre le rimanenti 50 vengono chiamate “carte morte” e pur essendo declamate dal lettore, non sarà possibile catturarle. Dal che deriva, molto prevedibilmente, un preciso schema di rischio & ricompensa, per non parlare delle conseguenti punizioni…
L’Uta-Garuta di natura competitiva viene convenzionalmente definito, benché la sua portata ed implicazioni siano notevolmente differenti, come una diretta evoluzione (e semplificazione) dell’Uta-awase (歌合 – associazione di poesie) nient’altro che una delle infinite variazioni sul tema dei giochi letterari praticati negli ambienti della corte imperiale durante la lunga epoca Heian (794-1185). Durante il quale, nella forma più semplice e meno ritualizzata, un personaggio di rango oppure lo stesso sovrano annunciava un tema, in merito al quale fino a cento partecipanti dovevano elaborare delle poesie, generalmente appartenenti al genere tanka (31 sillabe così ripartite: 5, 7, 5, 7, 7) che risultassero in qualche modo degne di essere inserite in una raccolta. In versioni successive di un simile passatempo quindi, ancora molto antecedenti all’introduzione del concetto occidentale di carte da gioco, la questione venne resa più complessa dall’introduzione di conchiglie, dipinti o fiori, che dovevano essere pescati a caso per accaparrarsi un particolare ordine di esposizione del proprio lavoro o davano diritto all’uso esclusivo di parole, metafore o circostanze. Quando successivamente alla chiusura del paese dopo la battaglia di Sekigahara (1600) con l’inizio del lungo e pacifico shogunato dei Tokugawa, quindi, ampie fasce di popolazione che erano in possesso di set di carte d’importazione rimasero del tutto privi di qualcuno che potesse insegnargli a usarle. E fu allora, grosso modo, che tornarono con la memoria ai propri antichi predecessori.
Il karuta nella sua forma competitiva fin qui discussa esiste fin dall’epoca immediatamente antecedente alla Restaurazione Meiji (XIX secolo) con regole per lo più differenti da una regione all’altra del Giappone, mentre un primo tentativo d’istituzionalizzarlo si ebbe attorno agli anni ’30 del 900, con due diverse associazioni, una maschile e l’altra femminile. Verso l’istituzione di una cesura tra i due sessi destinata ad allentarsi successivamente ma la quale ancora oggi permane ai livelli superiori, vista la nomina annuale al termine del ciclo dei tornei di una queen (regina) ed un meijin (maestro) cariche dal prestigio equivalente benché attentamente distinte. Attorno a quell’epoca, inoltre, le poesie raffigurate nella loro interezza sulle yomifuda (carte da lettura) furono standardizzate ed abbinate ad un ritratto tradizionale dell’autore, mentre venne deciso che le corrispondenti torifuda (carte da catturare) dovessero contenere soltanto l’ultimo verso di ciascun componimento secondo la metrica dei tanka.
Ora visto dall’esterno, il karuta può sembrare un semplice gioco di riflessi e agilità nell’eseguire il preciso gesto di catturare la carta letta, benché esso implichi nei fatti numerose e particolarmente sofisticate strategie: in primo luogo, relative al riconoscimento della carta. Piuttosto che memorizzare ciascuna poesia nella sua interezza, infatti, è prassi per i giocatori apprendere la fondamentale kimariji (sillaba di distinzione) ovvero il punto esatto in cui essa si dimostra differente da ciascuna delle sue vicine. Mentre il gesto stesso con cui si tenta di afferrarla prima dell’avversario può essere portato in vari modi, tentando a volte di coprire, altre di scansare, piuttosto che arrivare primi ad ogni costo anche a discapito dell’incolumità delle proprie stesse dita. Il che porta, irrimediabilmente, ad attimi di estrema catarsi mentre intere file di carte vengono scaraventate da ogni parte (non c’è penalità per chi tocca più di una poesia purché quella giusta sia stata spostata nel corso dello stesso gesto) seguiti dalle lunghe pause, necessarie affinché ciascun elemento torni nella posizione che gli era stato assegnato all’inizio della partita. Ogni qualvolta un giocatore commette un fallo tentando di catturare una carta morta, o tocca una carta sbagliata nella metà del campo avversario, sarà concesso a quest’ultimo di inviare una delle proprie carte nella sua metà del campo da gioco. Il principale gesto attraverso cui i più forti giocatori tentano d’influenzare la partita, al termine della quale, ovviamente, vincerà chi avrà catturato il maggior numero di poesie.
Momentaneamente passato in secondo piano dopo i recenti processi d’occidentalizzazione successivi alla seconda guerra mondiale, il gioco del karuta competitivo sta vivendo in quest’epoca un periodo di profonda riscoperta. Ciò in parte grazie all’istituzione di numerosi club regionali, spesso fondati da giovani praticanti come attività extra-curriculari all’interno del sistema scolastico giapponese, ma anche e soprattutto grazie all’enorme successo, anche internazionale, del franchise multimediale (fumetto, cartone animato e film) di Yuki Suetsugu del 2007 dal titolo Chihayafuru, che segue le avventure dell’eponima protagonista con il proprio gruppo di amici, fermamente intenzionati a lasciare una traccia indelebile nel sorprendentemente complesso, nonché stratificato mondo del karuta competitivo.
In una narrazione drammatica, appassionata e quasi mai didascalica nonostante le implicazioni, benché abbia saputo costituire per molti occidentali l’occasione d’imparare a memoria almeno la poesia d’apertura (infinitamente ripetuta) di quel Giappone che nel corso dell’ottavo secolo, si sentiva all’inizio di una nuova Era, poco dopo l’incoronazione del suo sedicesimo Imperatore:
Naniwa-zu ni 難波津に
Sakuya kono hana 咲くやこの花
Fuyu-gomori 冬ごもり
Ima o haru-be to いまを春べと
Sakuya kono hana 咲くやこの花
Ovvero:
Nella baia di Naniwa, adesso i fiori
germogliano. Dopo aver dormito
l’intero inverno, ora la primavera
è arrivata e i fiori
stanno germogliando