La sovrappopolazione delle carceri costituisce nelle maggior parte delle circostanze un problema grave, capace di trasformare un ipotetico percorso di riabilitazione in esperienza punitiva e priva di elementi per una rivalsa futura. Ma con tutte le problematiche della nostra società moderna fondata sul guadagno e le disuguaglianze, almeno di un fatto possiamo essere grati: il disarmo, la messa alla fonda o lo smantellamento dell’ultima delle prison hulk, o come si usava chiamarle dalle nostre parti, navi prigioni. Binomio tramite il quale non mi sto riferendo, come qualcuno potrebbe forse pensare, all’antica galera coi suoi rematori, costretti ad una vita di fatica con almeno un briciolo d’umanità dettata dalla convenienza, oppur flebile speranza di liberazione al termine del viaggio deputato. Bensì alla pratica, ancora assai diffusa nell’Inghilterra vittoriana, di prendere ampie quantità di uomini, anziani e ragazzi (scelti in modo largamente casuale) e trasferirli a bordo dei battelli per la punizione del “trasporto”. Fino alle colonie, s’intende, soprattutto quelle americane da principio, quindi fin laggiù in Australia. Tutto questo, almeno, a patto che ci fossero risorse sufficienti per portare a compimento il viaggio e che costoro, i “criminali” talvolta colpevoli di poco più che aver rubato del pane per mangiare, o scippato una persona per strada su incitamento del proprio padre putativo, apparissero sufficientemente in salute da sopravvivere al tragitto. Altrimenti, tutto ciò che tale società sentiva la necessità di fare, era trasferirli su speciali navi ormai rimaste prive di una vela, un timone o altri utili implementi, i portelloni dei cannoni ed ogni altra possibile apertura, sigillate. Poco prima di gettare l’ancora, nel luogo in cui sarebbero rimaste, si pensava, in eterno.
Riesce difficile, dunque, immaginare un’esperienza più terrificante. Centinaia di persone chiuse nelle stive, senza nessun tipo di contatto esterno salvo il secondino incaricato di portargli le provviste, in attesa di un momento di liberazione che, in parecchi casi, non giungeva mai. E non è difficile, purtroppo, immaginarne la ragione, quando ogni focolaio batterico o virale in tali ambienti assai ristretti, finiva per trasformarsi molto presto in un disastro totalmente incontrollabile. Mentre i prigionieri che morivano, uno dopo l’altro, venivano sbarcati, e successivamente seppelliti nella terra emersa più vicina. In luoghi come l’appropriatamente definita Deadman’s Island, presso la foce del fiume Medway nel Kent Inglese, situata a sole 40 miglia da Londra e proprio di fronte alla ridente cittadina di Queenborough, sull’isola antistante di Sheppey. Ridente in modo particolare quando i suoi abitanti raccontano, non senza un sorriso un po’ tirato, degli spiriti notturni che si sentirebbero ululare nelle notti di luna piena da quel luogo, mentre cani rossi e scheletri privi di testa si aggirano in cerca di una vittima imprudente da ghermire, poco prima di ucciderla e mangiarne l’organo più saporito (sto parlando del cervello, ovviamente…)
Una visione folkloristica la quale, assai probabilmente, tendeva ad essere presa sul serio almeno fino a un paio di secoli fa, quando qui avevano la sede tante operazioni dei contrabbandieri e piccoli ladruncoli, cui la legge dava spazio in considerazione delle “tradizioni locali”. E con un velato riferimento alla quale, sarebbe assai difficile negarlo, prendono il via tante escursioni registrate per i posteri grazie a YouTube, di gruppi d’avventurieri interessati a scoprire l’inquietante verità.
Ora l’argilla di Londra è quella sostanza geologica di origine ypresiana (56-49 Ma) dalla compattezza sufficiente a dare origine ad intere isole, tenute assieme dalle pietre contenute al suo interno. Ma generazioni e generazioni di ondate, precipitazioni e il flusso inarrestabile delle maree alla fine, non possono fare a meno di spazzarne via gli strati superiori, finendo per scoprire, uno dopo l’altro, gli orribili segreti che si credeva di aver seppellito in tali luoghi, per sempre. Avvenne a quanto pare “ufficialmente” nel 2016, benché in molti, a dire il vero, l’avessero sempre saputo: lo sbarco di una delegazione ufficialmente preposta (Deadman’s è in effetti un luogo interdetto per la sua importanza come santuario degli uccelli) accolta inaspettatamente dalle ossa, i crani e gli altri rimasugli di quelle che furono stimate essere all’incirca 200 salme umane, le antiche bare ormai svanite da tempo per l’effetto degli elementi, orbite vuote orientate a scrutare il sole senza alcuna capacità residua di sentirne il calore. Da quel momento in molti, sembrerebbe, hanno fatto il proprio ritorno su queste rive con telecamere più o meno volanti al seguito e non sempre in presenza d’autorizzazioni ufficiali, avendo ricevuto in qualche modo il “sacro” compito di farci prender atto di quanto possa essere profonda e illimitata, in particolari circostanze, la spietatezza dell’uomo verso i propri simili nel corso della propria breve esistenza su questa Terra. Così i mudlarks (cercatori di tesori nel fango) del canale Si-finds, così come l’organizzazione chiamata Medway drone exploration, o ancora il praticante di urbex britannico a capo della serie Exploring with Fighters (coi tre video qui mostrati in tale ordine) hanno avuto l’occasione di poggiare il tacco dei propri stivali sopra questo suolo gramo, al fine di mostrarci, uno dopo l’altro, il triste risultato di una tale storia di crudeltà e sofferenza: lì un femore, qui una tibia. Una mandibola e la parte superiore di una calotta cranica, ricoperta di mitili ed altre incrostazioni marine. Quasi come se il semplice fatto di aver lasciato l’involucro preposto, in qualche modo, avesse portato le salme a ritornare nel grande ciclo della morte e la rinascita, ovvero quel particolare destino che la natura, in mancanza d’interferenze esterne, avrebbe in serbo per ciascuno di noi. Eppure non c’è la solita mancanza di rispetto e condiscendenza che nella maggior parte dei casi ci si aspetterebbe da un simile video, mentre ciascun gruppo di escursionisti sembra sconfinare molto presto nel reame della più pura filosofia, immaginando l’universale significato, e le più profonde implicazioni di un simile luogo. Qualcuno, persino, ipotizza un’operazione su larga scala per il recupero delle ossa e la loro successiva sepoltura, dovendo ben presto arrendersi all’evidenza: che sarebbe ormai impossibile, nei fatti, rimettere assieme una singola salma e dunque, tanto valeva lasciare tutto nello stato in cui aveva finito per trovarsi dopo tante generazioni d’incuria.
Sarebbe difficile ipotizzare, dunque, l’effettivo stato di legalità della maggior parte degli sbarchi caricati su Internet presso le rive di Deadman’s Island, benché d’altra parte, sia difficile negarlo: ogni escursione di natura documentaristica costituisce una via d’accesso verso la conoscenza della storia. Soprattutto quella che la morale coéva, per ovvie ragioni, era particolarmente incline a far dimenticare. La terribile esistenza delle prison hulks ebbe modo di continuare in Inghilterra, dunque, per oltre tre secoli, a partire dal momento in cui i prigionieri francesi delle guerre napoleoniche ebbero modo di subire una simile punizione. Successivamente estesa agli esuberi delle carceri civili, per poi diventare, in modo molto pratico ed altrettanto spietato, l’ultimo destino di coloro che venivano infettati, di volta in volta, dall’ultima delle pestilenze capaci di diffondersi nei centri urbani all’inizio dell’Era Moderna. Così che tra il 1888 ed il 1892, a quanto viene riportato, l’isola in questione diventò l’ultimo luogo di sepoltura per ingenti fasce di popolazione colpite dal vaiolo.
Fu proprio in funzione del pericolo associato a una tale prassi, molto probabilmente, che presero vita le leggende relative a mostri e altre creature della notte di Deadman’s Island, con il fato ultimo di sorvegliare queste coste dal tipo d’intrusi che oggi, senza nessun tipo di timore, sfidano la loro furia repressa, assieme le braci ormai del tutto spente degli antichi microbi mortali. Anche questo, dopo tutto, è un chiaro segnale di quello che eravamo. E ciò che oggi, nel bene e nel male, siamo finiti per diventare.