Il camino totalmente fuori misura, le sedie imbottite dall’aspetto retrò, la pianta sopra il tavolo di forma circolare, il folto tappeto orientalista. Loro che si guardano negli occhi, senza mai voltarsi per la telecamera, trasportata innanzi a quella scena quasi per un puro caso. C’è grande formalità nella presentazione dell’Università di Richmond, in cui l’intervistatore lascia descrivere alla professoressa di neuroscienze Kelly Lambert l’argomento principale della sua ultima pubblicazione, un intero libro dedicato all’effetto delle “buone decisioni” sulla salute mentale umana. O per usare il termine da lei coniato, i cosiddetti behavior-ceuticals (contrazione del concetto di farmaci-comportamentali) potenzialmente capaci di liberare ampie fasce di popolazione affetta da disagi mentali di vario tipo dal bisogno di sostanze chimiche potenzialmente problematiche, costose o a lungo termine pericolose. Eppure neanche lei riesce a trattenere una risata, quando la sua controparte sposta l’argomento sull’ultima ricerca in ordine di tempo svolta nel suo laboratorio (eravamo a maggio di quest’anno), capace di condurre soltanto una settimana fa alla pubblicazione finale sulla rivista Behavioural Brain Research dell’articolo intitolato “L’esposizione ad un ambiente arricchito migliora le capacità di guida dei roditori”. Con un’espressione indecifrabile, inizia la sua spiegazione “In effetti, si è trattato di un’idea che abbiamo elaborato assieme. Io e i miei studenti, permettendo loro di divertirsi costruendo le automobili, mentre stabilivano le sfide e gli obiettivi posti innanzi agli amici topolini…”
Ma non si dilunga eccessivamente per approfondire l’argomento. Del resto in quel momento, senz’altro non credeva che un simile aspetto collaterale del suo intero iter di carriera potesse far conoscere, nel giro di appena 7 giorni, il suo nome a letterali centinaia se non migliaia di giornalisti sparsi per il mondo, e attraverso il loro tramite, quella brulicante macchina collettiva che è l’opinione pubblica, istintivamente catturata da un così bizzarro concetto. Eppure, gli elementi c’erano tutti: un personaggio estremamente noto, l’animale protagonista d’infinite favole o vicende di assoluta fantasia; il gadget tecnologico, passione inveterata della nostra intera epoca, segno sublime dell’intento innovativo generazionale; e il gusto un po’ curioso di un’esperimento comportamentale, per una volta niente affatto crudele o inquietante, quanto piuttosto mirato formalmente a far, letteralmente, divertire i proprio involontari partecipanti.
Già perché nei fatti, proprio di questo si tratta, come esemplificato dal titolo a posteriori dello studio e in un certo senso, l’intero trend della ricerca rilevante degli ultimi anni, che soltanto nel corso di questi ultimi ha iniziato a distanziarsi dalle originali idee messe in campo dall’effettivo padre della scienza comportamentale, il professore americano B. F. Skinner (1904-1990). Inventore del concetto della scatola, che viene oggi definita col suo nome, buia e priva di elementi, all’interno della quale il topo veniva tradizionalmente messo per tirare le sue leve, pulsanti o compiere altri tipi d’interazione, in cambio di sollecitazioni positive (cibo) o in più rari casi, ricevendone di negative (lievi scosse di corrente). Approccio gradualmente abbandonato dall’opera degli studiosi contemporanei, per il semplice fatto che un topo nella scatola non è semplicemente una casistica di controllo valida a riprodurre l’effettivo stato della mente umana, soggetta a una marea di sollecitazioni allo stesso tempo. Ecco, quindi, l’idea rivoluzionaria della Lambert e il suo team: “E se la scatola fosse del tutto trasparente? E dotata di un paio di ruote? E se il topo avesse la capacità di farla muovere, verso degli obiettivi bersaglio, in cambio di una ricompensa particolarmente piacevole e al tempo stesso, non necessaria?” (Nella fattispecie, un anellino dei tipici corn flakes statunitensi, modello Fruit Loops) Era dunque nato, nel preciso momento in cui vennero trovate le risposte a simili quesiti, il concetto totalmente nuovo del R.O.V. (Rodent Operated Vehicle). Nulla, nel mondo, sarebbe stato più lo stesso!
Un ROV, concettualmente, non è niente di eccessivamente particolare o inusitato: si tratta essenzialmente di una vaschetta per il cibo lunga circa il doppio del tipico topo da laboratorio, in cui sono stati praticati alcuni fori, finalizzati ad attaccarvi gli elementi necessari a trasformarla in un vero e proprio veicolo in miniatura. A cominciare da quello per i due semiassi, con efficienti pneumatici del tipo utilizzati nelle automobili radiocomandate, direttamente connesse al piccolo motore elettrico, comandato attraverso gli input di un semplice sistema di controllo creato ad-hoc. Costituito, essenzialmente, da nient’altro che una piastra di metallo posizionata al centro dell’abitacolo topesco, con tre barre di rame tangenti alla sua circonferenza, posizionate nella forma di una U. Questo affinché il topo, appoggiandosi con le zampette all’una piuttosto che all’altra, potesse rispettivamente far muovere il suo mezzo avanti a sinistra, dritto e avanti a destra: un’ingegnosa, quanto indubbiamente funzionale approssimazione del concetto di un volante ed acceleratore (niente cambio né frizione in quanto giudicati, per ovvie ragioni, troppo complicati in quel contesto d’impiego). Ora tale esperimento, di per se, sarebbe risultato già piuttosto interessante anche senza la suddivisione dei roditori coinvolti in due gruppi, il primo dei quali tenuto all’interno della tipica gabbia di laboratorio, mentre il secondo all’interno di un vero e proprio parco giochi topesco, ovvero l’ambiente “arricchito” (termine tecnico nel presente contesto) con giocattoli, rifugi e nascondigli, con conseguente riduzione del livello di stress dei suoi inquilini pelosi. Col risultato che potremmo già desumere dal sopra-citato titolo dell’esperimento: ovvero i topi più sereni e allegri dimostratisi capaci, nelle varie sfide e percorsi posti tra di loro ed il conseguimento finale della metaforica patente, di superare ogni aspettativa pregressa, oltre a bruciare la performance dei loro colleghi meno agiati. Il che ha dimostrato, in maniera sorprendentemente priva di precedenti di natura formale, come un minor livello di stress pregresso in simili contesti possa favorire i processi di apprendimento. Ma le sorprese, nei fatti, non finivano lì: questo poiché a una nuova misurazione delle condizioni dei topi dopo il completamento delle loro guide (effettuata mediante l’analisi degli ormoni presenti nelle feci) si è scoperto come entrambi i gruppi, nei fatti, fossero maggiormente sereni, piuttosto che in ansia, per ciascun ostacolo superato a bordo delle loro automobiline. Nella dimostrazione del processo, istintivamente già noto, attraverso cui la soddisfazione di se ed il senso di serenità siano esponenzialmente aumentati, ad ogni sfida che ci dimostriamo pronti ad affrontare. E lo stesso valeva, a quanto pare, per le nostre controparti dalle dimensioni tanto contenute, eppure così simili a noi, per i processi neurologici e le connessioni effettuate tra i concetti di causa ed effetto…
Questa tipologia di studi scientifici, nei fatti, tende spesso a suscitare un senso d’inquietudine nel senso comune. Per il naturale senso d’empatia nei confronti dei topi (tanto spesso uccisi crudelmente quando appaiono all’interno delle nostre case) e non solo: vige anche il concetto, largamente diffuso, secondo cui potrebbero risultare del tutto inutili, in quanto usati per dare conferma a dati che, in via del tutto empirica, già potevamo dire di aver largamente acquisito. Eppure dovrebbe apparire estremamente chiaro, nel caso specifico, come ci sia un’enorme differenza tra il sapere che mettersi alla prova, superando le risultanti sfide, può giovare alla nostra sanità ed integrità mentale, e l’impiego effettivo di tale conoscenza al fine di curare effettive malattie mentali diagnosticate, nella realizzazione pratica di quel concetto di behavior-ceuticals tanto orgogliosamente descritto dalla direttrice di un simile esperimento. Dopo tutto, quale dovrebbe mai effettivamente essere, nella vita dei topi, l’utilità di apprendere una tecnica ed il personale stile necessario al fine di mettersi alla guida? Se non l’acquisizione di una maggiore sicurezza in loro stessi, subito seguìta dalla concessione del superfluo quibus, supremo cereale per la prima colazione Fruit Loop… Tutt’altra storia che noi “superiori” umani, costantemente intenti a scorrere le pagine della Settimana Enigmistica, piuttosto che cliccare ripetutamente le immagini sopra lo schermo dell’ultimo videogame! A meno che si riconosca un merito ulteriore, personale ed innegabile, all’apprendimento di una serie di capacità nobili e complesse, proprio perché prive di un’applicazione materiale nella vita di tutti i giorni.
Un qualcosa che il supposto “senso empirico” facente parte della morale collettiva, ormai da molte generazioni, si è chiaramente dimostrato incapace di comprendere o applicare con metodologia coerente. Del resto, dovrà pur esserci una ragione, se i topi sono i mammiferi capaci di vantare il maggior successo evolutivo dell’intero pianeta Terra. Con molte meno malattie mentali, rispetto a noi.