Mura rosse sulla cima di una collina. E le merlature delle fortificazioni, che si stagliano dinnanzi alle forme cilindriche degli alti camini. Ma all’osservatore che dovesse ritrovarsi per la prima volta innanzi a questo luogo, l’effetto complessivo che farebbe è quello di una forma diseguale. Incompleta, spezzettata, per l’intromissione di un oggetto alieno sulla propria linea visiva. Come gli ombrello bulbosi di un’enorme famiglia di meduse, costruite di uno strano materiale simile a una pietra smeraldina. Il cui profilo, tuttavia, oscilla nel vento…
Avete mai sentito parlare della storia di Owain ap Gruffydd ap Gwenwynwyn, principe ereditario del regno di Powys verso la metà del XII secolo, il cui gesto di rinuncia al trono avrebbe posto fine alla leggenda della sua antica nazione? Un potentato rurale ma di peso, nell’antica terra di Britannia e grosso modo corrispondente a tre odierne contee dell’odierna parte occidentale d’Inghilterra, almeno prima che il re Edoardo Plantageneto (che potreste ricordare come il successore dell’anziano Alfred nella serie Tv “Vichinghi”) mostrasse quali fossero i vantaggi di affiliarsi alla prima nazione multiculturale dell’Europa settentrionale, pena la cancellazione niente affatto negoziabile dalle pagine della Storia. Una scelta, almeno in questo caso, condivisa dal regnante con il nome complicato, il che gli avrebbe consentito, differentemente da quanto successo ai suoi vicini, di ricostruire e continuare ad abitare con il titolo di barone la dimora avìta, una possente fortezza nei dintorni dell’odierna cittadina Welshpool. Perché nessuno, se possibile, vorrebbe mai distruggere un castello. Edificio in grado di cambiare ed evolversi attraverso le generazioni, incarnando di volta in volta lo spirito della sua epoca corrente. Così la forma originaria di quell’alto torrione, oggi, resta largamente misteriosa, mentre molto bene conosciamo quanto avrebbe conseguito dalle molte diverse famiglie passate tra queste mura, nel corso dei suoi oltre 7 secoli di storia. Come Sir John Charlton, inglese che aveva sposato Hawys, diretta discendente del sangue reale e che nel 1312 avrebbe aggiunto la possente porta fortificata che oggi sorveglia l’unico punto d’accesso all’interno delle mura, dopo un tentativo di riconquista da parte dello zio gallese di quest’ultima, Grufydd Fycha. Un cambio di mani destinato a ripetersi ancora nel 1421, quando al famiglia Charlton si ritrovò priva di eredi maschi, portando la dimora ad essere divisa tra le due figlie femmine Joyce e Joan, i cui consorti, successivamente, avrebbero deciso di dare in gestione il castello ad una terza parte, dietro generoso pagamento di una pigione. E fu così che a partire dal 1578 il castello di Powys sarebbe stato abitato dagli Herbert, che successivamente all’acquisto dello stesso nel 1587, l’avrebbero gradualmente trasformato da gelida fortezza in accogliente dimora nobiliare, con tutto il suo corredo di decorazioni, arredi ed altri splendidi tesori. Ma il cambiamento in grado di creare il principale tratto distintivo tra questo ed altri castelli inglesi, nei fatti, sarebbe giunto in due momenti successivi a partire dal 1670, quando William terzo Lord di Poys (c.1626–1696) decise di stipendiare per se i servigi dell’architetto William Winde, già famoso in Francia per aver partecipato all’allestimento di molte meraviglie paesaggistiche di stile ed epoca barocca. E fu allora, d’un tratto, che il territorio iniziò a mutare…
Erano gli anni, questi, in cui il più grande e potente paese d’Europa dettava legge e regole di stile sotto il comando del maestoso Re Sole. Luigi XIV con la sua reggia di Versailles, fenomenale macchina per raccogliere, controllare ed influenzare il vasto, imprevedibile ed eterogeneo ammasso dell’intera classe dirigente ereditata dalla sua nazione. Al punto che, persino in Galles, l’ideale estetico di chi poteva permetterselo desiderava perseguire un’immagine di ordine e predominio sulla natura, instradato mediante l’implementazione di canoni estetici drammaticamente precisi. L’idea di Winde, quasi omonimo del proprio committente, fu dunque prevedibile ma cionondimeno, coraggiosa: far saltare letteralmente in aria l’antico sperone roccioso situato poco fuori le mura dell’antica magione, per ricavarne una serie di terrazzamenti ed attraenti “caverne” da adornare mediante l’impiego informato dei migliori giardinieri di zona. E fu proprio allora, per quanto affermano le cronache ufficiali, che vennero piantate le siepi topiarie in grado di rivaleggiare per altezza con le alte mura dello stesso cancello di Charlton, principalmente costituiti da alberi di tasso e larice, attentamente potati per avere forme che potessero risultare in qualche modo armoniose. Eppure così come la futuribile cessazione dell’ordine globale corrente, in tanti scenari post-apocalittici del cinema di genere, potrebbe un giorno portare i grattacieli di New York a ricoprirsi d’edera ed escrescenze fungine, sarebbe stato il successivo stato di abbandono a connotare, fondamentalmente, il senso e il nesso del castello di Powys. Questo perché gli Herbert e in particolare William (il conte, non l’architetto) erano notoriamente cattolici e per questo sostenitori di re Giovanni II, il sovrano costretto a fuggire via in esilio nel corso della complessa concatenazione di eventi passati alla storia come Gloriosa Rivoluzione. Così che lasciate a loro stesse per oltre un ventennio a partire dal 1688, le siepi crebbero e crebbero ancora, diventando dei veri e propri esseri dotati di una propria volontà. Al punto che una volta fatto ritorno nella dimora avìta dopo la restaurazione della monarchia con Carlo II, i nobili abitanti di Powys decisero di mantenere la strana risultanza esotica di un tale bosco ipertrofico, accrescendone piuttosto il fascino con l’aggiunta di una foresta di querce antistanti, che in buona parte sopravvivono tutt’ora.
Ma la storia dei passaggi e cambiamenti di nome per un così straordinario edificio non era ancora finita: perché nel 1784 la figlia dell’ultimo discendente maschio dei Powys avrebbe sposato Edward Clive, figlio del famoso “Napoleone Bonaparte d’India” Robert, comandante in capo degli sforzi coloniali dell’Impero inglese all’interno del grande sub-continente d’Asia, i cui leggendari tesori, riportati in patria dopo i lunghi anni di battaglie e (secondo alcuni) brutali saccheggi avrebbero finito per adornare le maestose sale. Sotto lo sguardo indifferente, ed inconsapevole, di così tanti svettanti e cinguettanti alberi di un’altra Era.
L’attuale situazione di restauro e l’effettiva dislocazione degli elementi scultorei, vegetali e le fontane dei giardini del castello sono quindi una diretta risultanza del completo lavoro di restauro affrontato nel 1891 dal nipote di Edward, George, e sua moglie Lady Violet Lane-Fox, fin da subito appassionata all’enorme giardino ed a quanto si dice conoscitrice approfondita dei canoni formali mostrati dallo stesso, in larga parte ereditati dal Barocco continentale attraverso la Francia, ma in realtà provenienti dal nostro stesso Rinascimento italiano. Una visione, quest’ultima, secondo cui Powys costituirebbe uno degli ultimi e senz’altro più importanti complessi rappresentanti tale corrente sull’intero territorio d’Inghilterra. Nel 1952 quindi, il quinto conte di Powis, rimasto ancora una volta senza eredi in seguito alle due grandi guerre, avrebbe deciso di donare il castello al Fondo Nazionale affinché le prossime generazioni avessero modo di visitarlo e conoscerne tutte le inusitate meraviglie. A patto che sua moglie, successivamente destinata a rimanere vedova, potesse continuare ad abitarne la dower house (tradizionale casa in abbinamento per le consorti rimaste sole) fino alla fine dei suoi lunghi anni di vita.
Ma sarebbe difficile, dinnanzi all’attuale spettacolo delle splendenti mura sull’alta collina, dubitare anche soltanto per un secondo di quale sia sempre stato, attraverso tante peripezie e cambiamenti, il vero padrone dell’antica fortezza di Owain ap Gruffydd ap Gwenwynwyn: il possente rigoglio, l’incontrollabile vigore, il lussureggiante sviluppo della Natura stessa. Che ogni cosa ricopre senza tuttavia consumarla, riciclandone il nesso all’interno delle sue infinite, imprescindibili trasformazioni.