Arido, immoto, privo di vita: non è certo questa una serie d’aggettivi che possano essere attribuiti al più bacino idrico endoreico (privo di emissari) della parte settentrionale della California, non troppo distante dal Nevada, dove torri ultramondane di contorto tufo si specchiano nelle acque lievemente increspate dal vento secco proveniente dall’entroterra degli Stati Uniti, mentre enormi stormi d’uccelli migratori calano a più riprese, per cercare un pasto particolarmente nutriente. Nonostante neanche un solo pesce, da un periodo di almeno 10.000 anni, abbia nuotato sotto la sua superficie, in forza di una quantità di sale così elevata da portare il valore del pH tra 9 e 12, fino ad una condizione basica talmente estrema da impedire lo sviluppo di organismi di tipo convenzionale. Il che, d’altra parte, non ha fatto altro che rimuovere dall’equazione ecologica qualsivoglia possibile rivale di quelle creature che, invece, hanno trovato il modo di sfruttare tale situazione a proprio vantaggio. Primo tra tutti il gamberetto Artemia monica, qui presente in quantità superiore al trilione di esemplari, così come la mosca Ephydra hians, le cui gustose larve si nutrono di un ricco letto d’alghe verdi, prima di spiccare il volo, non smettendo ad ogni modo di tornare a immergersi sfruttando la propria capacità di trascinarsi dietro una bollicina d’aria. Gustose perché mangiate, sin dall’alba dei tempi, dai volatili locali oltre alla popolazione indigena dei Kucadikadi, il cui nome in lingua algonchina significa per l’appunto “Mangiatori della Pupa di Mosca del Lago Salato” Ma è nel regno delle cose ancor più minute, come spesso capita in simili ambienti, che la situazione inizia a farsi decisamente interessante: con colonie del batterio endemico Spirochaeta americana, dotato di un flagello estremamente atipico, che gli permette di nuotare con un movimento a spirale. O il suo simile GFAJ-1 (fam. Halomonadaceae) scoperto nel 2010 dalla scienziata della NASA Felisa Wolfe-Simon e ritenuto capace, per qualche tempo e prima che arrivasse la smentita in laboratorio, di generare le copiose quantità di arsenico rilevate in determinate zone del lago, come parte inscindibile del proprio DNA.
Ciò che non era mai stato trovato, tuttavia, in un così interessante luogo era l’essere che più di ogni altro, caratterizza e connota il concetto stesso di vita sulla Terra: che non è l’essere umano, e neanche la formica, bensì l’intera genìa di piccoli vermi cilindrici appartenenti al Phylum Nematoda, la cui onnipresenza sia come parassiti che esseri indipendenti è stata confermata ricoprire ogni singolo ambiente, naturale o artificiale, pianta, animale o essere umano del nostro pianeta. E sarebbe stato ragionevole affermare: perché non si era ancora fatto in modo di cercarlo nella maniera/luogo giusto, come oggi riconfermato dall’ultima ricerca dei due recenti PhD della Caltech assunti dal laboratorio Sternberg Pei-Yin Shih e James Siho Lee, pubblicata verso la fine del mese di settembre, capace d’incrementare ulteriormente la stima che abbiamo nei confronti della capacità di adattamento e plasticità ecologica di queste quasi-onnipresenti creature. Oltre a presentarne una quantità di 9 specie tra cui alcune, inserite solo temporaneamente nel recente genere Auanema (sotto-classe Rhabditia) dotate della caratteristica riproduttiva piuttosto rara in natura di presentare un sistema trioico, ovvero dotato di tre possibili sessi: maschile, femminile ed ermafrodita. Un vantaggio dalle significative implicazioni evolutive…
Niente d’inaudito, d’altronde. Talmente tanti sono i nematodi, sia come quantità complessiva che numero di specie (un tempo si credeva esistessero oltre un milione di varietà diverse) da presentare ogni possibile approccio riproduttivo e stile di vita. Con dimensioni che vanno dalla frazione di millimetro ad oltre un metro, nel caso delle specie in grado di stabilirsi all’interno dell’intestino di esseri vertebrati, oltre a un metodo per mettere al mondo la prole che può variare dalla deposizione di uova convenzionali all’ovoviviparismo, ovvero il mantenimento di quest’ultime all’interno del corpo della genitrice, fino alla schiusa e un conseguente parto non dissimile da quello dei mammiferi propriamente detti. Mentre per quanto concerne le nuove specie del lago Mono, il riassunto ufficiale dell’articolo offerto sul sito della Caltech, rigorosamente occultato dietro il pagamento dei diritti di lettura alla rivista ScienceDirect, parla di un misterioso sistema paragonabile a “quello di un canguro” presumibilmente analogo a quanto sopra descritto tranne che per una qualche capacità di trasferire sostanze nutritive ai piccoli situati all’interno di una sorta di “tasca” (?) in grembo al verme. Proseguendo quindi nella descrizione del tratto distintivo principale di queste creature, quella divisione in tre sessi che risulta in grado di permettergli, in caso di necessità, di auto-fecondarsi giungendo a colonizzare intere aree prive di vita nel giro di un tempo eccezionalmente breve. Ricorrendo invece alla fecondazione convenzionale con due partecipanti durante il procedere delle proprie stagioni più comuni, al fine di garantire un’adeguata e proficua ricombinazione dei geni. Non a caso, gli scienziati dello Sternberg sono riusciti a dimostrare come gli esemplari ermafroditi siano in genere gli ultimi a essere prodotti durante il ciclo vitale dei propri genitori, quando ormai l’ambiente di appartenenza risulta essere completamente saturo dei propri simili, col conseguente rischio di esaurimento del cibo a disposizione, a meno di spostarsi verso diversi lidi.
Il tutto grazie a un’altra caratteristica notevole di questi vermi, ancora largamente lasciati privi di un nome: quella di sopravvivere, altrettanto bene, nel proprio ambiente invivibile di provenienza così come quello sterile di un centro di ricerca, caratteristica piuttosto rara negli organismi estremofili ed in grado di costituire uno strumento prezioso, nell’approfondire il funzionamento biologico di questi esseri capaci di resistere senza nessun tipo di effetto collaterale a sostanze per noi letali, quali l’arsenico del Mono Lake.
Un ulteriore valore aggiunto di questa ricerca potrebbe essere individuato, allo stesso tempo, nel semplice fatto di portare nuovamente all’attenzione pubblica l’importanza potenzialmente notevole del Mono Lake. Un esempio di ambiente terrestre il più possibile simile, per quanto ci è dato di sapere, a potenziali situazioni vigenti su distanti corpi planetari, offrendo uno sguardo importante nei confronti di come potrebbe essersi sviluppata la vita all’interno di un ambiente ostile. Un luogo, questo, già minacciato verso la metà del ‘900, quando il sempre assetato dipartimento idrico della città di Los Angeles, inconsapevole o disinteressato alla significativa componente d’arsenico all’interno di queste acque, ne prelevò quantità copiose per far fronte al fabbisogno idrico della popolazione. Occasione a seguito della quale il livello dell’acqua calò significativamente, lasciando finalmente svettare le succitate torri di tufo.
Perché una futura scomparsa del Mono Lake, oltre a minacciare la sopravvivenza delle molte specie di uccelli che qui sostano durante le proprie peregrinazioni, tra cui gabbiani e falaropi di Wilson, potrebbe anche chiudere il passaggio verso nuovi ambiti fondamentali per la ricerca. Come il potenziale modo in cui dovremmo tentare di sopravvivere, in futuro, sotto la pesante atmosfera di un mondo diventato ancor più inabitabile della terza o quarta luna di Giove.