Ecco un video che non capita di vedere tutti i giorni. La ripresa dal posto di guida dei giri effettuati dal pilota e restauratore americano d’automobili Bruce Canepa sul circuito Laguna Seca, a bordo di uno dei bolidi più importanti e significativi nell’intera storia delle corse a motore: la feroce Porsche 917K del 1970, versione perfezionata del veicolo creato dalla casa tedesca per rispondere alle nuove, meno stringenti norme entrate in vigore l’anno precedente per le gare FIA del Gruppo 4, relative a prototipi sportivi prodotti in serie per un minimo di 25 esemplari. Numero piuttosto significativo, quest’ultimo, poiché non avrebbe dovuto impedire alle compagnie automobilistiche, nonostante fossero adesso permessi motori dalle dimensioni di fino a 5.0L, di produrre mostri tecnologici eccessivamente costosi ed irraggiungibili per il mercato generalista, conservando in questo modo il principale tratto distintivo con la categoria contrapposta del gruppo 6. A meno che, e ciò ebbe a dimostrarsi un grande a meno, l’orgoglioso direttore del reparto sportivo della Porsche Ferdinand Piëch non decidesse di poter giustificare la potenziale perdita d’investimento, schierando innanzi alla sua fabbrica il numero richiesto d’improbabili creature nate dall’incontro dell’ingegneria spregiudicata e la fiducia nella visibilità che un simile progetto si sarebbe guadagnata, una volta raggiunto l’obiettivo prefissato di trionfare durante la prestigiosa 24 ore di Le Mans.
Così nacque la prima delle numerose versioni della 917, alcune valutate ai nostri giorni oltre 20 milioni di dollari, per la rarità, l’importanza storica e il prestigio percepito, di una quattro ruote destinata a superare largamente le già rosee aspettative di coloro che l’avevano portata a una tangibile realtà. E ciò benché, si narra, i risultati nei primi esperimenti in pista fossero stati tutt’altro che rassicuranti. Il veicolo destinato a sostituire la popolare e spesso vincente 908 del 1968, sul cui telaio era largamente basato, vantava infatti un insolito motore a 12 cilindri contrapposti che era sostanzialmente la combinazione di due impianti da 6, capace di generare la considerevole potenza di 520 cavalli per un peso complessivo di appena 800 Kg, grazie alle soluzioni avveniristiche adottate per il suo corpo in alluminio con pannelli in poliestere. Tale meraviglia della tecnica fu quindi inizialmente presentata al salone di Ginevra del 1969 ad un costo vertiginoso per il pubblico equivalente a quello di undici normali Porsche 911, facendo affidamento sui copiosi allori delle vittorie in pista che, la casa di Stoccarda ne era pressoché sicura, sarebbero ben presto ricaduti sul suo parabrezza così drammaticamente simile alla cabina di pilotaggio di un aereo. Un piano destinato a presentare, alquanto inaspettatamente, un “piccolo” problema: sembrava infatti che nessuno tra i diversi componenti delle squadre corse supervisionate da Piëch fosse abbastanza folle, o coraggioso, da mettersi al volante di un simile mostro delle piste, le cui caratteristiche di guidabilità e aerodinamica non risultavano assolutamente commisurate alla spregiudicata potenza del suo motore.
Raccontò a tal proposito Frank Gardner durante le interviste, uno dei due piloti australiani reclutati in tutta fretta (assieme a David Piper) pur di riuscire a iscrivere la 917 alla 6 ore di Nürburgring di quello stesso anno: “Quando arrivai in Germania, tutti coloro che avevano provato a guidare l’auto si trovavano in ospedale o a casa, ridotti a vari stadi di disperazione.” Per poi continuare nella descrizione di una scocca costruita con saldature a gas, la cui forma tendeva modificarsi durante le brusche accelerate o frenate, di cui ce n’erano parecchie, arrivando persino a far cambiare la posizione della leva del cambio dopo ciascuna singola curva. Inoltre la coda geometricamente interessante concepita per tentare di mantenere l’aderenza alle alte velocità, assieme a dei particolari alettoni mobili montati sulle sospensioni posteriori, risultava non soltanto incapace di legare a terra il mostro, ma finiva addirittura per generare una pericolosa portanza verso l’alto nei rettilinei più lunghi. Nonostante l’abilità alla guida, quindi, il duo australiano non riuscì a portare a casa di meglio che un ottavo posto dietro le solite Ford e Alfa Romeo, anche a causa della natura estremamente curvilinea del circuito, fondamentalmente inadatta alle caratteristiche della 917.
Raccontò a tal proposito Frank Gardner durante alcune celebri interviste, uno dei due piloti australiani reclutati in tutta fretta (assieme a David Piper) pur di riuscire a iscrivere la 917 alla 6 ore di Nürburgring di quello stesso anno: “Quando arrivai in Germania, tutti coloro che avevano provato a guidare l’auto si trovavano in ospedale o a casa, ridotti a vari stadi di disperazione.” Per poi continuare nell’inquietante descrizione di una scocca costruita con saldature tradizionali di quei giorni, la cui forma tendeva modificarsi durante le brusche accelerate o frenate, di cui ce n’erano parecchie, arrivando persino a far cambiare la posizione della leva del cambio dopo ciascuna singola curva. Aggiungete a questo la posizione del pilota molto in avanti e tra i due serbatoi di benzina, proprio per far spazio all’enorme motore, con l’unica protezione di un sistema di allarme automatico in grado di allertarlo in caso di danni eccessivi alla carrozzeria, mediante la rilevazione di fughe di gas da un’intercapedine nella stessa, preventivamente riempita a tal fine da un’imprecisata sostanza rivelatoria. Ma soprattutto la coda geometricamente interessante e variabile (ne furono prodotte due versioni: corta e lunga) che era concepita per tentare di mantenere l’aderenza alle alte velocità, assieme a dei particolari alettoni mobili montati sulle sospensioni posteriori, risultava non soltanto incapace di legare a terra il mostro nella sua prima accezione, ma finiva addirittura per generare una pericolosa portanza verso l’alto nei rettilinei più lunghi. Nonostante l’abilità e il coraggio di guida dimostrati, quindi, il duo australiano non riuscì a portare a casa di meglio che un ottavo posto dietro le solite Ford e Alfa Romeo, anche a causa della natura estremamente curvilinea del circuito, così drammaticamente inadatta alle caratteristiche della 917. Ma il vero disastro sarebbe giunto a palesarsi soltanto più tardi quello stesso anno, durante l’attesa partecipazione dell’auto alla prestigiosa 24 ore sul circuito assai più rettilineo de la Sarthe: quando a guidarla trovò posto, nel drammatico momento della sua stessa fine, il pilota inglese di 37 anni John Woolfe che perdendo il controllo della vettura avrebbe finito per urtare contro le barriere a bordo pista e cappottarsi, mentre i serbatoi vicino all’abitacolo prendevano entrambi fuoco. E non ci fu, purtroppo, assolutamente nulla che fosse possibile fare per trarlo in salvo dal conseguente rogo.
Evento a seguito del quale, assai probabilmente e se soltanto dietro alla 917 non ci fosse stato un tanto significativo investimento, molte aziende avrebbero desistito nel produrre una tale mostruosità. Ma non la Porsche e non il team d’ingegneri di supporto alla visione di Piëch, che verso la fine di quell’anno stabilì un accordo con la squadra corse JWA dello statunitense John Wyer, sponsorizzata dalla Gulf Oil. E sarebbe stato con quell’accezione e quella specifica livrea, quindi, che la 917 avrebbe fatto il proprio ingresso a pieno titolo nella storia dei motori.
La seconda versione della vettura, identificata come dicevamo dal suffisso K (dal termine tedesco Kurzheck, “coda corta” ) vide infatti una completa riprogettazione aerodinamica, a partire da uno spoiler posteriore più grande in grado di garantire l’adeguata deportanza nella maggior parte delle situazioni di guida. E secondo la leggenda fu proprio il consulente tecnico della squadra JWA, con spirito d’osservazione senza precedenti, a far notare ai professori della Porsche come i moscerini schiacciati sulla carrozzeria del veicolo fossero tutti posizionati nella parte anteriore del veicolo, piuttosto che sull’alettone, mostrando dove fosse l’errore di base nella loro idea. Ma il principale miglioramento venne implementato dal punto di vista programmatico: riservando la 917K, particolarmente nella sua versione più pesante e potente da 4,9L (Langheck o “coda lunga”) soltanto alle gare che erano effettivamente adatte a lei, mentre luoghi come il Nürburgring e la tortuosa Targa Florio continuarono a vedere l’uso di una nuova versione della classica 908. Così che, a partire da quel momento, le 917 vinsero la maggior parte delle gare di resistenza a cui presero parte nell’intero 1970 e a seguire, cementando sostanzialmente il predominio tanto agognato da parte della Porsche di farsi un nome in questa disciplina, in grado di risultare intoccabile per molti anni da parte dalle eterne rivali Ferrari e BMW.
Con un prezioso esemplare restaurato e posto in evidenza nel museo aziendale di Zuffenhausen a Stoccarda, la Porsche 917 è stata orgogliosamente celebrata in occasione del suo cinquantenario lo scorso marzo, coerentemente alla presentazione di una concept car dal gusto retrò che potrebbe in futuro rappresentarla sulle strade odierne, un po’ come avvenuto verso la metà degli anni 2000 per la coèva Ford GT, versione aggiornata della leggendaria GT40. Voci sull’effettiva entrata in commercio del nuovo modello di 917, tuttavia, restano largamente non confermate, lasciandoci per ora l’unica alternativa a sborsare i copiosi milioni necessari per accaparrarsi uno degli originali 25 esemplari, di qualche video pubblicato su YouTube o l’apprezzata inclusione in popolari videogame. Il che in ultima analisi, considerata la sua leggendaria difficoltà di guida, ci garantisce almeno di poter vedere un’altra alba in questo colorato, allegro e spesso imprevedibile mondo dei viventi…