Ragnar sulla prua della sua nave dalla vela quadrata, la pietra solare stretta tra le mani, che illumina il passaggio verso un mondo di ricchezze precedentemente inesplorate. Erikson con lo sguardo sollevato di traverso verso l’astro del tramonto e Vinland, circondato dagli scudi variopinti dei guerrieri, nella mente bene impressa una singola direzione: ovest, ovest, ovest! Eroi fuori dal coro, o almeno questo è quello che si crede, straordinari per premesse, inclinazione, forma mentis fuori dal comune pragmatismo delle situazioni. Il cui obiettivo era lasciare piste fiammeggianti nella storia dell’esplorazione. D’altra parte certi passi dell’evoluzione, sia scientifica che naturale, sono conseguenze inevitabili di uno specifico contesto. Perché mai dunque, tutto questo non dovrebbe essere per gli uomini di mare? Forse, determinati passi furono la conseguenza di specifiche tecnologie. Magari non c’era niente di “speciale” nel coraggio di determinati individui, semplicemente perché loro ben sapevano di andare incontro alla gloria. La progressione può essere davvero semplice, se lo vogliamo: il carpentiere costruisce scafi capaci di raggiungere l’America; qualcuno sale a bordo. E indovinate che succede…
Sigurd Aase, l’individuo dal rosso mantello con figure di serpi marine e un folto pelo di “ermellino” è il facoltoso imprenditore del petrolio norvegese che nel giugno del 2012, dopo due anni di lavoro, vide finalmente realizzarsi una delle sue massime ambizioni: il varo della Draken Harald Hårfagre, o Drago Harald Bellachioma, dal nome del primo potente sovrano in grado di unificare quel vasto paese del Nord. Personaggio storico, quest’ultimo, che forse ricorderete di aver visto come antagonista nelle ultime stagioni della serie Tv Vikings, interpretato dall’attore Peter Franzén col volto ricoperto di tatuaggi e l’ammirazione nei confronti di una donna che lo incita di continuo a “Diventare re di tutta la Scandinavia”. Il cui nome qui si trova attribuito, ad ogni modo, a un singolare tipo di battello lungo 35 metri, ben diverso in linea di principio dal più inflazionato stereotipo della nave lunga o drakkar, considerata l’ampiezza del suo scafo e l’altezza svettante del suo albero ricavato da un abete di Douglas. Perché questa era in effetti, la ragione stessa dell’impresa: intraprendere, per questa volta, un viaggio ben diverso dall’avventura pionieristica che molti immaginano, compiuta da uomini pronti a sacrificare tutto pur di giungere dall’altra parte dell’Oceano. Bensì un viaggio semplice nei presupposti, sebbene non del tutto privo di peripezie, simile per tempi e modalità a quello che avrebbe potuto compiere un sovrano dell’Alto Medioevo, a bordo della sua ammiraglia più solida ed impressionante. Non per niente era l’usanza che attorno al XIII secolo, l’insieme delle province norvegesi (fylker) fornissero alla marina reale un totale di 116 navi con un totale di 50 remi ciascuna, la cui natura ed esatte specifiche, nei fatti, riescono ad eluderci tuttora…
Draken Harald Hårfagre dunque, piuttosto che venire inserita in uno specifico insieme di battelli, è stata descritta dal suo committente e creatore partecipativo come una “possibile riproduzione delle Grandi Navi descritte nelle saghe vichinghe e le altre fonti coéve”. Il che rappresenta una significativa deviazione dalle precedenti imprese simili, generalmente fatte derivare in maniera pressoché diretta da specifici ritrovamenti archeologici nelle tombe nordiche o nelle profondità abissali dei dintorni d’Europa. Potenzialmente una scorciatoia, questa, verso la realizzazione di un vascello maggiormente confortevole e funzionale, benché la logica di partenza risulti nella realtà dei fatti ben più ragionevole di quanto si possa essere portati a credere: dopo tutto, chi può realmente pensare che le navi più imponenti della cultura vichinga fossero quelle abbandonate o seppellite dai loro stessi creatori? Non è possibile, persino più probabile, che le migliori di esse siano state più volte aggiornate, modificate e riciclate, verso i molti secoli di tradizione marittima che ci portano direttamente alla Norvegia dei nostri giorni? Così partendo da un simile presupposto, Mr Aase si è rivolto ad alcuni dei migliori carpentieri della regione di Haugesund, per la creazione di quella che avrebbe potuto rappresentare la “miglior possibile” nave vichinga. Nei fatti la più lunga ed imponente realizzata in epoca moderna, di molto superiore come metratura alla precedente e più famosa “Viking” di Christen Christensen del 1893, che avendo ricreato la fondamentale Gokstad del tumulo di Sandar, Sandefjord, raggiunse l’isola di Terranova partendo dalle coste norvegesi ed entro la fine di quello stesso anno, la Fiera Mondiale della città di New York. E persino più massiccia, nella stazza complessiva, della lievemente più lunga Roskilde 6 da 36 metri, maggior nave vichinga scoperta nell’omonimo fiordo Danese verso la fine del 1996. Essendo l’effettiva conseguenza ingegneristica dell’unione tra il concetto di “nave lunga” da guerra ed una knarr, imbarcazione usata normalmente per i commerci scandinavi, la cui stazza era notoriamente sufficiente ad affrontare senza eccessivi timori le più impressionanti tempeste dei mari del Nord. Vedendo, nel caso specifico, l’impiego di oltre 10.000 chiodi di metallo, infissi lungo i circa 8 metri di larghezza dello scafo e sovrastati dalla vela rossa di 260 metri quadri, sufficiente a sostituirsi quando possibile e/o necessario all’opera dei circa 30 membri dell’equipaggio e rematori. Benché in condizioni meno confortevoli, la nave possa giungere ad ospitare facilmente il doppio di barbuti e furiosi guerrieri, prima di compiere la tradizionale scorribanda o strandhögg sulle coste tanto sfortunate da aver suscitato l’interesse del suo fiero (è proprio il caso di dirlo) armatore.
Dopo una breve crociera di prova attorno alla Norvegia e varie isole sulle coste d’Inghilterra, tra cui Man, le Orkney e le Shetland, la Harald Hårfagre avrebbe quindi visto poste le basi per quella che avrebbe dovuto costituire la sua impresa maggiormente memorabile: la rinnovata “conquista” della baia di New York ad opera di un equipaggio norvegese, dopo un epico viaggio che li avrebbe condotti nel 2016 da Haugesund fino all’Islanda di Reykjavik, da lì in Groenlandia e presso l’isola di Terranova. Percorrendo quindi la fitta rete di canali e corsi fluviali verso l’entroterra americano fino alla regione dei Grandi Laghi per il grande festival commemorativo delle Alte Navi di Duluth, se non che la Guardia Costiera statunitense, con gran dispiacere di ogni parte coinvolta, decretarono che tale scafo andasse inserito nella categoria dei vascelli commerciali e per questo fosse tenuto ad assumere un pilota professionista oltre ai servigi del capitano, con un costo stimato di 400.000 dollari complessivi. Semplicemente troppo alto, persino per Sigurd Aase. E fu così che dove mai nessuno prima d’ora aveva avuto successo, poté riuscire ad ottenerlo la burocrazia contemporanea, costringendo il feroce re di Norvegia col suo equipaggio a voltare nuovamente la prua verso Oriente, per tornare lassù in Europa, da dove era provenuto.
Non che una tale delusione avrebbe precluso ad Aase e i suoi, nel 2016, l’assegnazione del prestigioso premio “Leif Erikson” per i traguardi storici e archeologici del Museo dell’Esplorazione di Húsavík, Iceland (e voglio dire, CHI meglio di loro?) mentre già tornati presso la loro gelida terra natìa, iniziavano a pianificare la prossima impresa. Perché dopo tutto, non c’è niente di “eccezionale” nell’impresa che persegue un obiettivo che costituisce una parte assolutamente fondamentale dell’esperienza umana: la ricerca di nuove terre, esperienze, strade per l’intraprendenza. Grazie all’uso di quella tecnologia encomiabile, che tendiamo, troppo spesso, a tralasciare.