Essere privo di mente, senza occhi e senza orecchie, rimasto eternamente solo sopra il suolo arido di Marte. E con ciò voglio dire che il concetto d’individuo, ormai da tempo immemore, è per esso privo di significato, mentre ciascuna singola occorrenza della propria specie esiste in una sola monade continuativa, costituita dall’insieme plurimo dei suoi invisibili rappresentanti. Perché è questo il solo metodo, con cui i batteri possono riuscire a sopravvivere: mediante sforzo unico e totalizzante, di ogni microgrammo dell’enfatica biomassa, nella costruzione di un muro. La membrana cellulare che al confine delle cellule dei procarioti, ne difende il denso contenuto, d’acido desossiribonucleico, i mitocondri e tutto il resto, dalla polvere, dal Sole, dal pH della sabbia e dai protisti predatori. Ma non c’è nulla, in senso totalmente letterale, che potesse prepararli a questo: la calata di un lontanissimo parente, nei fatti più simile ad un fungo. Ed una profezia. Dell’orribile actinomicete (ord. Actinomycetales) creatura estremamente pervasiva grazie alle sue spore, che calando sopra il mucchio, ne inizia l’opera di distruzione sistematica. Diffondendo, a macchia d’olio, l’arma biologica più efficace di cui dispone; il feroce glicopeptide, che ogni membrana rende permeabile, smontandola sin dal più minuscolo mattone.
Una scena, questa, che potremmo facilmente rivedere (si fa per dire) altrove. Ovvero molto più vicino del pianeta Rosso ormai sempre più prossimo all’esplorazione umana, proprio qui nel nostro globo di terra ed acqua, presso il luogo che più d’ogni altro riesce a ricordarlo. Sudamerica, Cile, deserto dell’Atacama: terra super-secca grazie alla collocazione tra due alte catene montuose, le Ande e la Cordigliera della Costa, nonché battuto dal feroce anticiclone del Pacifico, capace a poche ore di distanza di far bollire le ossa o ghiacciare l’acqua all’interno di una bottiglia nel giro di pochissimi istanti. Un ambiente, insomma, che potremmo definire totalmente all’opposto della Vita per come siamo abituati a concepirla. Se non fosse, per citare lo scienziato sottovalutato di una celebre vicenda letteraria e cinematografica che “[Essa] trova, sempre, il modo.” Nelle crepe della terra ferita dalla luce ultravioletta, sotto sassi abbandonati a lato del sentiero, dentro buche impresse nel paesaggio da preistorici animali… E che maniera, quale splendido sistema di sopravvivenza!
Era l’anno 2008 quando un intero team di scienziati guidati dal biologo scozzese dell’Università di Newcastle Michael Goodfellow, si recò ad effettuare una ricerca che avrebbe cambiato per sempre la cognizione che avevamo di un simile luogo. Per l’isolamento sistematico, e tassonomico, dell’intera potenziale popolazione di queste creature largamente prive di studi pregressi, proprio per la natura inospitale e irraggiungibile del loro habitat d’appartenenza. Ciò che sostanzialmente nessuno, tra i diretti interessati e nell’intero mondo accademico riusciva tuttavia ad immaginarsi, fu a quel punto pura ed innegabile realtà: ecco proprio lì, nel luogo degli scheletri e del sale, una lista senza fine di creature totalmente nuove, ovvero appartenenti a specie prive di un nome e che tali sarebbero rimaste, a causa della propria incalcolabile ed imprevista varietà. Ma la parte forse più intrigante si sarebbe palesata successivamente, tra le mura sterili di un laboratorio. Dove il frutto di un così ricco raccolto, mescolato con intento sperimentale a batteri di provenienza più convenzionale, iniziò a produrre tutto attorno un’alone perfettamente circolare. Ebbene si: gli actinobatteri si stavano facendo largo nelle moltitudini, plasmando il proprio spazio come fatto da un coltello incandescente in un panetto di burro. Una strage senza nessun senso, tranne l’ira di chi vuole vendicarsi dei catturatori…
Fu allora, quindi, che Goodfellow e colleghi scelsero di coniare un nuovo termine per i soggetti del proprio studio: la “materia oscura”. Una popolazione non-vista e mai-sentita di microrganismi appartenenti all’ordine degli actinobatteri, precedentemente ignoti alle nostre pur vaste cognizioni scientifiche, che adattandosi a sopravvivere in condizioni estreme avevano imparato, grazie alla maestrìa severa ma importante dell’evoluzione, a fare l’unica cosa possibile per loro: rimuovere, in maniera cruda e sistematica, qualsiasi possibile rivale. Il che appare tanto maggiormente significativo, quando si considera il ruolo normalmente pacifico e benevolo di questa intera classe di creature, presenti ad ogni livello del bioma temperato e tra la terra dei nostri stessi giardini, di si occupano di formare una relazione simbiotica con le radici delle piante dotate del sistema dell’actinorriza: una radice infetta ma proprio per questa, tanto più efficace nella fissazione dei nitrati di cui il fusto principale dovrà nutrirsi (particolarmente importante, a tal proposito, risulta essere l’opera delle spp. Frankia). Non vi ricorda, tutto questo, la questione della nostra flora batterica, intruso fondamentale per l’umana persistenza? E non è forse un incidente, dunque, che proprio la versione belligerante di questi esseri potrebbe, un giorno, contribuire a dare un seguito alla nostra stessa civiltà.
Avrete forse sentito, negli ultimi tempi, il termine anglofono di superbug: un batterio, virus o altra minuscola creatura potenzialmente nociva che morendo ormai da secoli per l’effetto dei nostri antibiotici, ha subito l’effetto della selezione artificiale, percorrendo in pochi anni il sentiero di letterali secoli o millenni d’evoluzione. Per trasformarsi, grazie al ciclo ultrarapido delle generazioni, in una qualche malattia orribile per cui ancora fatichiamo a trovare una cura. Di certo, ne conoscerete alcune per nome: il papilloma che induce il cancro, l’HIV, l’ebola, la gonorrea. Particolarmente e tristemente celebre, negli ultimi anni, è diventata la diffusione inarrestabile di una nuova forma di Candida auris, batterio normalmente innocuo presente in grande quantità nelle nostre mucose, che talvolta si “ribella” scatenando febbri e tremori, senza reagire positivamente ad alcun tipo di medicina nota. Ma che dire invece della sua Nemesi da tempo immemore, il marziano che proviene dalle secche profondità del Cile?
Gli antibiotici dal canto loro, fin dalla scoperta da parte di Alexander Fleming della penicillina (Penicillium chrysogenum) nel 1928, non sono altro che questo: il prodotto di colonie batteriche avverse ai propri simili e non-tanto-simili, capaci d’inficiarne la riproduzione bloccando la costituzione della loro membrana cellulare. Il che presenta naturalmente non pochi problemi per creature complesse come noi, che ci affidiamo in egual misura a piccoli inservienti necessari a mantenere in forma la macchina dell’organismo. Ma a mali estremi, come si dice, rimedi estremofili. E via.
Una sorta di letterale bomba atomica in ultima analisi, la soluzione senza via di scampo al male che ci affligge e potrebbe, un giorno, condurre alla nostra stessa rovina. Ritrovata nella profondità del Nulla, dove soltanto le creature maggiormente spregiudicate e dotate del giusto armamentario possono aspirare ad un qualche tipo d’inconcepibile prosperità. Lo stesso concetto di superbug, d’altra parte, non rappresenta null’altro che una sovrastruttura umana, relativa alla percepita invulnerabilità di quanto avremmo prodotto, idealmente, in conseguenza di un imperdonabile peccato originale. Laddove in effetti, ogni singolo essere noi compresi fa una cosa e soltanto quella: tentare di sopravvivere, a discapito di qualsivoglia fattore esterno ed a spese dei suoi possibili rivali.
A partire dai glicopeptidi prodotti per autodifesa dagli actinobatteri e particolarmente, gli actinomiceti, sono stati prodotti nei secoli della scienza un alto numero di antibiotici fino ad ora: sostanze come la vancomicina, decaplanina, telavancina e ramomplanina, utili a contrastare infezioni di vario tipo in maniera spesso altamente mirata e ragionevolmente priva di danni collaterali o conseguenze avverse (disclaimer: i risultati possono variare). Appare tuttavia chiaro come l’applicazione della nuova “materia oscura” dell’Atacama sia destinata a richiedere, nel corso delle prossime generazioni, un lungo percorso di approfondimento e trial clinici prima di approdare nelle affollate farmacie urbane.
Il che si palesa, allo stato attuale dei fatti prossimi alla catarsi, come una vera e propria necessità piuttosto che un semplice capriccio della curiosità dell’uomo. Poiché quando il Male busserà alla nostra porta, che cosa potremmo mai usare per trarre in salvo la nostra continuativa esistenza? Se non un Male ancor più grande, il cui destino, in qualche maniera, siamo riusciti a legare al nostro. E che per questo, ringhia con tutta la furia di un Cerbero tenuto a catena…