Narra l’aneddoto storico che verso la fine dell’aprile 1770, a seguito del laborioso approdo della prima grande spedizione di James Cook sulle coste del remoto continente australiano, il naturalista di bordo, nonché futuro presidente della Royal Society Joseph Banks ebbe modo d’imbattersi in una bizzarra creatura pelosa. Eppure non del tutto priva di una certa familiarità, tanto che in presenza di marinai testimoni si trovò ad esclamare, sull’onda e l’entusiasmo del momento: “Caspita, si tratta di un Oh, Possum!” Ora i nomi scientifici degli animali nascono, generalmente, da una scelta ben precisa effettuata la fine di onorare i loro scopritori, caratteristiche fisiche o inerenti derivanti dalla loro discendenza tassonomica pregressa. Ma per quanto concerne quelli comuni, beh: ogni suggestione è lecita. Compreso il momentaneo fraintendimento di una personalità eminente, capace di portare all’omissione di quella fatidica lettera “O”. Ben poco in effetti accomuna il possum dalla coda a spazzola (Trichosurus vulpecula o volpino) con il cosiddetto “cane bianco” identificato per la prima volta dai coloni americani di Jamestown, con un nome ereditato direttamente dalla lingua dei nativi algonchini. Fatta eccezione per quella caratteristica decisamente distintiva all’altro capo del Pacifico, ma decisamente più comune in questi lidi, di partorire piccoli particolarmente vulnerabili e altriciali, destinati a trascorrere lunghe settimane della propria giovane vita all’interno della tasca della loro amorevole madre. Ed anche la propensione a presentarsi non soltanto in abito color sale e pepe con la testa pallida ed orecchie nere, ma una serie di possibili tonalità, andanti dal grigio, scuro oppure quasi bianco, al marrone fino a un caso particolarmente raro ed incredibile a vedersi: quello di una rara bestia color della fiamma dell’alba.
Come un animale mitologico portato in giro per le piazze dei comuni medievali, il tricosuro rossastro appare in episodi ciclici sul palcoscenico di Internet, ogni qualvolta un singolo esemplare finisce catturato o viene al mondo in uno zoo. Esso spicca nell’estrema moltitudine dei propri simili, una specie fino ad ora impervia alla riduzione dell’habitat o l’innaturale predazione ad opera dei gatti ferali, per l’anomalia di un gene in grado di schiarirne in modo estremo il pelo, senza giungere all’estremo e ancor più problematico caso dell’albinismo. Ciò detto, la sua vita tende a risultare certamente meno facile in natura, data la conseguente riduzione delle proprie abilità di mimetismo. Ragion per cui, ancor più dei propri simili dalle tonalità convenzionali, il possum-albicocca appare vulnerabile, prezioso ed insostituibile, al pari di un raro Pokémon di razza shiny, soprattutto quando accompagnato dal singolo figlio che partorisce due volte l’anno, al culmine di autunno e primavera. Aspetto, questo, per certi versi capace di trarre in inganno, data l’effettivo successo evolutivo di una creatura non poi tanto piccola e indifesa (1,2/4,5 Kg) dimostratasi capace di adattarsi più e più volte a contingenze evolutive non previste, costituendo nei fatti l’unico marsupiale capace di prosperare a stretto contatto con comunità rurali o persino urbane. Per giungere all’estremo della sua propagazione, ad opera di sconsiderati umani, fino alla vicina terra di Nuova Zelanda, dove questa intera genìa si sarebbe trasformata nel sinonimo di una vera e propria piaga ambientale…
Il principale punto di forza del tricosuro volpino, in effetti, è proprio la sua notevole versatilità alimentare. Concepito in linea di principio con lo scopo di mangiare foglie di eucalipto, come il più celebre koala, esso possiede non di meno una variegata dentatura, egualmente adatta a trangugiare frutta, radici e in certi casi, addirittura grossi insetti, cuccioli d’uccelli o piccoli marsupiali. Un’approccio opportunista alla sopravvivenza, non-proprio-onnivoro ma quasi, in grado di sfociare occasionalmente nell’assalto notturno alle finestre delle abitazioni, spingendosi a rubare cibo e vettovaglie totalmente fuori dal suo contesto. In Nuova Zelanda particolarmente, data l’assenza di predatori nativi come i quoll tigre, i varani, il gufo potente (Ninox strenua) o una quantità considerevole di gatti e volpi provenienti dall’Europa, i piccoli esseri si sono dimostrati in grado di pervadere ogni territorio, sfruttando la loro durata di vita relativamente lunga (6 anni di media fino a un massimo di 12, regolarmente raggiunti in cattività) per propagarsi a dismisura, senza preconcetti in materia di colore o far problemi nella scelta del/della partner. Tanto che oggi, il danno all’agricoltura è diventato chiaramente misurabile, mentre l’eccessiva sovrappopolazione ha reso un suono particolarmente familiare, nella terra del Signore degli Anelli, quel cacofonico concerto di grugniti infernali usato dai maschi della specie per difendere il proprio territorio da un potenziale intruso. Assieme alla ghiandola presente sul petto, capace di emettere un fluido rossastro ed odoroso simile al sangue, che macchia egualmente il loro pelo e la corteccia degli alberi, segnalando l’avvenuto ingresso in una proprietà “privata”. Altra caratteristica anatomica decisamente significativa in queste normalmente pacifiche ed affabili creature è la posizione della tasca riproduttiva a distanza dalle particolari strutture ossee di sostegno (dette epipubiche) possedute da molti marsupiali contemporanei, un accorgimento forse finalizzato a favorire la respirazione polmonare durante le lunghe camminate di una specie non arboricola, né dotata dell’imponenza e conseguente solidità fisica del comunque imparentato canguro.
Per quanto concerne d’altra parte la coda prensile, forse il singolo elemento maggiormente simile agli opossum americani (parte dell’ordine Didelphimorphia invece che dell’australiano Diprotodontia) anch’essa si presenta come sostanzialmente diversa poiché di una folta peluria nella parte superiore, piuttosto che trovarsi totalmente glabra come nel caso della controparte. Per citare quindi una battuta spesso ripetuta in campo tassonomico, è una vera fortuna che Banks e il resto della spedizione di Cook non si siano spinti maggiormente a settentrione nel Nuovissimo continente. Poiché altrimenti è assai probabile che il coccodrillo marino (Crocodylus porosus) maggior predatore di terra sul nostro pianeta, si sarebbe ritrovato accomunato al ben più piccolo, ed ecologicamente ben distinto alligatore con gli occhiali sudamericano.
Ecco dunque, un anomalia: rarità delle rarità, all’interno di una specie per nulla a rischio d’estinzione. Tanto che, pur avendone proibito la caccia nell’Australia natìa, originariamente praticata al fine di metterne in commercio la caratteristica e pregiata pelliccia, tale genìa viene sottoposta a regolari programmi di controllo della popolazione nelle antistanti isole neozelandesi, mediante caccia sistematica e l’impiego del discusso veleno 1080, estratto dalle piante locali e scientificamente denominato fluoroacetato di sodio. Mentre in terra di Tasmania, geografica e concettuale via di mezzo, viene mantenuta un’annuale stagione di caccia coadiuvata dai permessi speciali, occasionalmente concessi agli agricoltori che possono dimostrare di aver riportato un danno a causa di queste prolifiche, onnivore creature.
Detto ciò risulta assai difficile, previa idonea presa di coscienza, che qualcuno possa nuocere all’estrema ed apparente grazia del tricosuro dorato. Perfetta personificazione di quel concetto universale di creatura aliena e graziosa al tempo stesso, dall’aspetto (ingannevolmente?) letargico e bonario. Splendente anche più del necessario, vista l’accidentale perdita di quel fondamentale strumento d’autodifesa: la capacità di passare inosservati. Ma non è forse questo, nei fatti, il fine ultimo dell’evoluzione? Fornire gli strumenti necessari a sopravvivere. E cosa meglio dell’affetto e la simpatia degli umani, al giorno d’oggi, può sovvertire le leggi stesse della natura?