L’antica saggezza indiana dei cammelli di mare

“Ma nel deserto non ci sono le navi!” Il pastore con le mani sui fianchi, il turbante tradizionale in bilico sulla testa, indispettito dall’occidentale cognizione secondo cui un animale possa essere ridotto, seppur metaforicamente, al solo tratto distintivo della propria altalenante andatura. “E poi questi, come dovrei chiamarli? Le Land Rover del golfo di Kachchh?” Talvolta opportuno sembra, in effetti, dubitare di un’espressione idiomatica che inverte i rapporti concettuali in gioco, per il semplice gusto letterario, oppur folkloristico, di lasciare una profonda impressione nell’ascoltatore. Benché talune apparenze, per quanto improbabili, difficilmente possano trovare smentita all’effettiva verifica dei fatti. Fatto: il “cammello” (o volendo essere più specifici, si tratta di un dromedario) più famoso e rappresentativo dello stato indiano settentrionale del Gujarat, che per andare a nutrirsi nuota per un tragitto marittimo di 3-10 Km, ogni giorno durante le primavere e autunni della propria esistenza. Sospinto dal desiderio di un particolare cibo, sperando che basti per garantire la propria soddisfacente sopravvivenza. E ancora, un fatto: la dura esistenza del custode col lungo bastone, il piccolo galleggiante di compensato e polistirolo, che li segue da presso, intento a verificare che alcun giovane membro del branco finisca per perdersi tra le onde che dividono la terra ferma dalla serie di isole note come arcipelago di Bet.
È la congiuntura di elementi, questa, che definisce e riassume l’antica tradizione locale di un allevamento importante per l’economia, la cultura e l’identità di almeno due popoli, l’etnia nomade dei Jat e quella per lo più pastorale dei Rabari. Alternativamente proprietari, e talvolta soci in affari, in questa specifica prassi di collaborazione proficua col mondo animale, la cui origine può ben dirsi nascosta nelle più remote nebbie della storia. Per passare dunque ai veri protagonisti di questa storia, un cosiddetto cammello di Kharai (termine in lingua locale che significa “salato”) è l’appartenente a una specifica razza del familiare C. bactrianus, frutto in egual maniera della selezione artificiale e l’adattamento progressivo alle caratteristiche insolite di un tale habitat di appartenenza. I suoi tratti distintivi includono una testa più grande della media, zampe lunghe ma snelle particolarmente adatte al nuoto, una forma ridotta e meno ingombrante del “quinto piede” o preminenza carnosa posizionata in corrispondenza del petto, usata dagli altri cammelli per appoggiarsi quando si trovano in posizione seduta. La colorazione, nel frattempo, risulta essere marrone chiaro e il pelo piuttosto corto, in forza del clima temperato della loro regione di provenienza. Ma il vero pregio di queste mansuete ancorché magnifiche creature, nella preziosa opinione di coloro che le hanno elette a propri compagni nel corso di una talvolta complicata esistenza, risulta essere senz’altro la qualità particolare del loro latte, che si dice possa contribuire al recupero da qualsivoglia afflizione o malattia, incluso addirittura il diabete…

E se la famosa foto vista dall’alto con le ombre che si allungano sulle dune, di cammelli ripresi in tutt’altra zona del globo, trovasse una corrispondenza locale con prospettiva dal basso, ripresa dal punto di vista dei granchi in marcia sul sabbioso fondale? Cosa avrebbero da dire su tutto questo, i gabbiani?

Il cammello Kharai risulta essere altamente significativo tra gli animali addomesticati non soltanto in quanto unico esempio di appartenente alla propria specie propenso ad immergersi e percorrere ampi tratti a nuoto, bensì per la capacità, molto rara, di adattarsi a due distinti biomi d’appartenenza: tra cui il primo e più rappresentativo, la costa, e quello dell’entroterra asciutto, dove tende a mescolarsi in maniera pressoché indistinguibile con la razza cognata del cammello Kachchhi o del Kutch, più imponente e di colorazione scura. Almeno una delle doti maggiormente rappresentative della genìa di entrambi, del resto, appare pienamente utile in entrambe le situazioni: la capacità di sopravvivere con “appena” 20-40 litri d’acqua al giorno, trangugiati rapidamente al cospetto di un raro ruscello continentale o la pozza di acqua piovana presso un declivio sulle isole di Bet, dove i Kharai sono soliti trascorrere una buona parte dell’estate senza mai fare ritorno alle coste originarie di provenienza. Dal che nasce la cognizione ovviamente leggendaria che tali esseri possano trarre idratazione dall’acqua salata di mare, di cui comunque assumono quantità non indifferenti nel corso del proprio quotidiano banchetto. Basato, come dicevamo, sulle foglie e i più teneri virgulti delle verdeggianti mangrovie della specie avicennia marina cresciute sopra i banchi delle sabbie isolane, importante elemento paesaggistico della regione, da sempre considerate una delle ricchezze più insostituibili e rappresentative del golfo di Kachchh. A meno prima che il moderno progresso industriale, accompagnato dal bisogno di edificare nuove fabbriche, acciaierie e bacini di trattamento dell’acqua, allontanasse progressivamente questa vegetazione dalle rive più prossime, costringendo i dromedari coi loro custodi a trasferte sempre più lunghe e difficili al di là della spuma ondeggiante del vasto mare.
In epoca recente quindi, proprio per l’importanza economia rivestita dall’attività di questi popoli di pastori a maggioranza musulmana, che sono soliti tenere per se il latte e la lana dei cammelli traendo invece profitto dalla vendita degli esemplari da tiro o a scopo di consumazione alimentare, un influente movimento nazionale ha trovato forma per la conservazione di questi caratteristici arbusti, con conseguente quanto inaspettata recriminazione proprio nei confronti di coloro che, più di chiunque altro, avrebbero dovuto beneficiare di tale missione. Sembra infatti diffusa e persino sostenuta da diversi scienziati (vedi l’opera dell’esperto in mangrovie dell’Istituto di Ecologia del Deserto del Gujarat, Alagiri Thivakaran) l’idea, non poi così facile da smentire, secondo cui l’allevamento della razza Kharai possa risultare tutt’altro che sostenibile nel mondo moderno, causa la preferenza dei cammelli nuotatori per la consumazione di piante che non hanno ancora raggiunto la dimensione riproduttiva, oltre al calpestìo sistematico dei loro tenui figlioli, appena radicatosi al di sotto della splendente superficie marina. Altre figure nel mondo accademico, nel frattempo, hanno suggerito come la funzione ecologica degli zoccoli possa in effetti risultare benefica, data l’inerente propensione a spargere il fango garantendo la migliore sepoltura dei semi.

Custodire una branco di cammelli rappresenta un’attività sorprendentemente complessa, che richiede una profonda comprensione della psicologia di questi cocciuti animali. Immaginate, quindi, quando va ad inserirsi nell’equazione imprevedibile del moto ondoso proveniente dal Mar d’Arabia!

Dispute destinate, assai probabilmente, a sfumare progressivamente nel vento che batte le nude coste del Gujarat, inutili e anacronistiche, mentre i discendenti degli ultimi praticanti di una così antica arte pragmatica passano ad attività forse meno salubri, benché integrate in una logica economica decisamente più redditizia.
È la marcia inarrestabile della modernità, se vogliamo, che ti trasforma implacabile in un ingranaggio di quella macchina complessa che in un modo o nell’altro, permette il funzionamento dell’attuale sistema economico globale. Entro cui non c’è spazio, nonostante quanto saremmo propensi a pensare, per un latte miracoloso, zoccoli umidi o i pregevoli ricami matrimoniali creati con la lana, secondo le antiche tradizioni del popolo dei Jat. Ed è probabile che tutto questo, mai avremo ragione di rimpiangerlo. Perché l’avremo dimenticato. O forse, visto il contesto geografico particolarmente remoto, non ne avremmo neppure mai sospettato l’esistenza.

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