Succede ogni anno attorno al cambio di stagione, quando uno dopo l’altro, pelosi piccoli cadaveri cominciano a fare la loro comparsa nella terra di nessuno che divide la foresta e gli insediamenti umani. Di creature insettivore simili a topi, ma che nella realtà dei fatti, furono tutt’altro sin dall’epoca in cui erano venuti al mondo. Prima di precipitare in modo sistematico dai rami più bassi degli alberi, le rocce, le banchine stradali o altre strutture edificate dai loro vicini sovradimensionati a due gambe. I quali se soltanto si prendessero la briga di studiare la faccenda in modo più diretto e personale, scoprirebbero l’inaspettato: che una simile morìa coinvolge, in un rapporto di almeno tre a uno, solamente gli esemplari maschi del consorzio di queste specie, condannate a lasciarci all’apice della propria avvenente gioventù.
Per gli esponenti del genere Antechinus, importante categoria di marsupiali, la riproduzione rappresenta più di un semplice chiodo fisso. Arrivando a scrivere, nei fatti, l’effettivo destino genetico alla base della propria stessa esistenza fino al culmine di quel breve periodo di tre settimane, contenuto generalmente nella sua interezza all’interno del mese più caldo dell’anno, che costituisce per i maschi anche l’ultimo periodo della propria stessa vita, lunga per l’appunto poco più di 365 giorni. Non così invece per le femmine, che dovranno accudire e svezzare i propri piccoli, come previsto dal copione della propria classe tassonomica affine ai canguri e demoni tasmaniani, per un periodo di oltre un mese, riuscendo qualche volta a sopravvivere fino al seguente periodo riproduttivo. Ma perendo anch’esse, nella maggior parte dei casi, durante le stagioni di maggiore penuria alimentare. Un approccio questo, sostanzialmente, non poi così dissimile da quello di taluni insetti univoltini, cui l’evoluzione ha imposto la necessità di “farsi da parte” una volta espletata la trasmissione del proprio codice genetico alla generazione successiva, affinché quest’ultima possa beneficiare a pieno delle risorse, generalmente limitate, messe a disposizione dall’inclemente natura. Ma poiché simili esseri, nonostante le caratteristiche decisamente fuori dal comune, sono e restano pur sempre dei mammiferi, non sarebbe in alcun modo un azzardo ipotizzare, come fatto nel 2013 dalla biologa Diana Fisher dell’Università del Queensland, che l’origine ed il senso di un simile racconto sia di un tipo profondamente diverso, appartenente sostanzialmente alla sfera competitiva. Dopo tutto, chi non ha presente le feroci battaglie per l’accesso esclusivo a una compagna combattute con feroce enfasi dal cervo, il lupo, la zebra, diverse specie di scimmie ed allo stesso modo, spesse volte, noialtri maschi umani! Immaginate ora di contro il dramma procedurale sperimentato da una creaturina le cui dimensioni si aggirano, a seconda della specie, tra i 12 e i 31 cm appena, sostanzialmente priva di artigli, zanne o altri tratti utili a stabilire un primato combattivo, senza rosicchiarsi vicendevolmente le ossa craniche o altri approcci altrettanto letali. Non c’è dunque nulla di strano, a conti fatti, che la strada scelta diventi quella di un KO tecnico concesso da un diverso tipo di superiorità: quella della quantità di sperma prodotta in quel breve, fondamentale periodo della verità…
Certo, pensateci: quante delle preziose risorse possedute dai minuti esseri, accumulate attraverso la continua ricerca di larve d’insetto, ragni e altri artropodi del bush, debbano finire per alimentare l’accumulo, e utilizzo, della materia necessaria a veicolare il proprio codice genetico a vantaggio dei loro futuri eredi. Ma la produzione di copiose quantità di sperma non costituisce, nei fatti, l’unica ragione della collettiva dipartita degli antechini maschi successivamente all’episodio riproduttivo, durante cui si apre la strada, piuttosto, ad un tutt’altro tipo di alterazione del metabolismo per i Casanova ad orologeria: in parole povere, una produzione sproporzionata di corticosteroidi nel sangue, in grado di annullare sostanzialmente la necessità di prendersi periodi di riposo, nutrirsi o rallentare la propria marcia verso l’auto-annientamento. Il che porta molti maschi a dimenticare addirittura di nutrirsi, dedicando ciascuna singola ora delle poche che gli sono rimaste ad accoppiarsi con un quattro, cinque femmine diverse (o per quanto ne sappiamo, anche più di queste) obiettivo raggiunto il quale, il loro sistema immunitario smette semplicemente di funzionare, il pelo cade a chiazze, l’andatura si fa incerta e confusa e addirittura l’intestino si riempie di ulcere, finendo per andare in cancrena. Ovvero in altri termini, il soddisfatto marsupiale inizia a tutti gli effetti a disintegrarsi, poco prima che la sua coscienza, finalmente, lasci il mondo tangibile dei viventi.
E dire che ogni aspetto nella vita degli antechini e la specie cognata e molto simile del piccolo kaluta rosso (Dasykaluta rosamondae) sembri rappresentare l’assoluta ragionevolezza del mondo animale: con un approccio che prevede, data la relativa uniformità del ciclo delle stagioni nel proprio habitat d’appartenenza, non un lungo periodo di letargo bensì l’impiego di un torpore molto più flessibile, impiegato con successo in tutti quei periodi in cui l’accesso al cibo risulta più difficile o saltuario. Mentre lo stesso meccanismo che induce la fondamentale frenesia riproduttiva non viene fatto derivare unicamente dall’aumento di temperatura, bensì da un preciso e complesso orologio biologico capace di determinare il cambio di lunghezza delle notti rispetto alle ore diurne, chiamato per l’appunto fotoperiodismo. Anch’esso adattato, d’altra parte, alle specifiche caratteristiche ecologiche di ciascuna singola specie, da quella più grande dell’A. swainsonii tasmaniano fino al minuto, rapido Antechinus agilis dell’estrema Australia meridionale, dove la maggiore quantità di risorse alimentari disponibili sembra portare, in maniera paradossale a una certezza della dipartita di entrambi i sessi nel più breve periodo dopo l’espletamento della propria principale funzione (una contingenza prova, in maniera pressoché automatica, la teoria della competizione maschile elaborata da Diana Fisher). Anche il numero di capezzoli da supportare, con conseguenti potenziali cuccioli, appare condizionato dalla latitudine, con le femmine settentrionali che ne possiedono un numero variabile tra i 6 e i 13, mentre nel meridione, dove l’ambiente risulta maggiormente stabile, la variazione verificata si aggira soltanto tra gli 8 e i 12.
Una strategia evolutiva, in conclusione, che potrebbe far nascere non pochi dubbi sulla sua effettiva efficienza: perché mai, dopo tutto, la natura dovrebbe affidare l’intera sopravvivenza di un ampio ventaglio di specie alla fortuna di cui potrà servirsi un’unica generazione di creature? Un approccio che, sarebbe assai difficile negarlo, sembra sposarsi più che bene con la tipica strategia degli insetti di mettere al mondo moltitudini spropositate di pargoli, tra i quali una significativa percentuale, per la mera legge dei grandi numeri, dovrà pur riuscire a prosperare.
Ben diverso invece il caso di questi esseri tanto simili, eppur diversi, dai nostri amici topolini: che in opposizione a questi ultimi, vivono la fondamentale esigenza di un allattamento lungo parecchi giorni, nei fatti corrispondente a un considerevole segmento della propria stessa transitoria esistenza. Combinazione tutt’altro che vantaggiosa, quest’ultima, tanto da richiedere essenzialmente l’approccio del singolo, risolutivo evento riproduttivo che conduce tutti i maschi a un così drammatico trapasso. Con una sola possibile risposta alla domanda implicita, che tutto questo può suscitare in noi: ebbene si! Qualche volta, l’unica possibilità che abbiamo è perseguire un’ottima risoluzione, facendo del nostro meglio. Con le carte sfortunate che il mazziere dell’albero della vita, nostro malgrado, ha finito per concedere alla nostra mano. Sinonimo d’imprescindibile condanna. Ed allo stesso tempo, magnifico trionfo sulle avverse circostanze.