Il vero potere può cambiare una persona. La facoltà di decidere, o disporre, sulla vita e sulla morte delle persone. Ma sapete che cos’altro può riuscire a farlo? Il più puro e distillato senso di terrore. L’assoluta paralisi diurna, cui fanno seguito torpore delle membra, fissità dello sguardo e infine grida disarticolate, in un tentativo chiaramente vano di trovare un qualche tipo di scampo dal proprio triste destino. Un ricorso quest’ultimo particolarmente vano, quando ci si è macchiati di un crimine tanto efferato e imperdonabile, dinnanzi agli occhi di tutti coloro che potranno sopravviverci, da meritare a pieno titolo la nostra divina punizione. Perché sebbene almeno formalmente, il cristianesimo non creda nella legge buddhista del karma, essa risulta corrispondere a una ferma e diffusa credenza popolare, riassumibile nell’espressione “Chi la fa l’aspetti” specialmente nell’occasione, ed in presenza, della giusta leva lungo il corso degli eventi. Nera e pelosa, occhi rossi e sopracciglia folte. Ma soprattutto, la lunga e serpentina coda che richiama il demone che ci ha privato del diritto eterno al Paradiso Terrestre…
Poche figure nella storia medievale di Germania risultano essere controverse quanto l’uomo noto unicamente con il nome di Hatto II, monaco benedettino assorto nel 968 d.C, grazie ai collegamenti della propria nobile famiglia, agli allori della prestigiosa carica dell’Arcivescovato di Magonza sul Reno (Mainz) carica inclusiva del fondamentale ruolo d’elettore per un ancora giovane Sacro Romano Impero. Nella più totale unione, allora non insolita, di potere religioso e temporale, al punto che nessuno, tra la gente comune, avrebbe mai potuto sognarsi di criticare il suo operato. E d’altra parte la storia parla, per lo meno per le prime decadi durante cui rimase in carica, di un suo buon governo e gesta responsabili, persino gloriose, come la costruzione della chiesa di San Giorgio presso l’isola Reichenau e copiose donazioni nei confronti dell’abbazia di Fulda, nonché al fine d’incoraggiare e tutelare le arti in tutta la città di Magonza. Tutto questo, almeno, finché qualcosa in lui cambiò, all’incirca verso la metà del decimo secolo, quando come colto da un’improvvisa ispirazione, egli fece costruire la sua più celebre torre in prossimità del borgo di Bingen, in punto strategico del Reno. Strategico perché, sulla cima dei circa 20 metri di quest’edificio, fece posizionare alcuni esperti mercenari armati di balestra, al fine d’imporre un severo tributo a tutti coloro che intendevano far navigare i propri beni verso i ricchi mercati della sua città. E tutto ciò sarebbe stato il meno, in effetti, rispetto al seguito di questa storia. Un evento tanto spaventoso e inumano da sfumare, come sua implicita prerogativa, nel regno della più nebulosa leggenda. Ovvero parlano le cronache, per lo più orali, di un’estate e autunno particolarmente piovosi, al punto da anticipare rovinosamente il raccolto del grano nell’intera regione, ponendo le basi per quella che sarebbe diventata un gravissima carestia. E del modo in cui, col verificarsi delle prime morti, Hatto II fece trasportare nei suoi granai fortificate copiose quantità del cibo rimasto, al fine di poterlo vendere con gran profitto alla popolazione. Ragion per cui, iniziò comprensibilmente a crescere il uno scontento tra la gente, che portò ben presto a veri e propri moti di protesta. Ora, il nostro governante ed uomo di chiesa avrebbe potuto reagire in molti modi a tutto ciò ma egli scelse, probabilmente, il peggiore: invitati infatti le dozzine e dozzine di fomentatori presso uno dei depositi ormai rimasti vuoti, con la vana promessa di “un pasto misericordioso” appiccò quindi personalmente il fuoco all’edificio, dopo essersi ovviamente premurato di chiuderlo a chiave. E “Sentite come squittiscono questi miseri topolini affamati, parassiti senza senso della società!” si disse che abbia pronunciato in tale orribile frangente. Mai metafora, nei fatti, si sarebbe rivelata maggiormente sfortunata ed incauta di questa…
Ora, esistono due spiegazioni possibili, per il nome della succitata torre oggi nota in tedesco come Mäuseturm: una che prevede un semplice slittamento semantico dal succitato maut (pedaggio) imposto dal nostro assassino di massa con il ruolo di vicario de facto del potere e l’autorità papale al di là delle Alpi. E l’altro invece, facente capo alla leggenda che circonda e anticipa la morte del malcapitato malandrino, sopraggiunta a quanto pare il 18 gennaio del 970, per l’evento tutt’altro che usuale di un’intera fagocitazione ad opera di quegli stessi ratti neri, che aveva evocato nel momento della sua massima efferatezza, dimenticando le loro associazioni inerenti con la rovina e l’annientamento stesso dell’intera umanità. Il che risulterebbe, nei fatti, già una coincidenza sufficientemente straordinaria, senza neanche preoccuparsi di aggiungere il luogo esatto in cui l’imprescindibile vendetta della natura si sarebbe, a quanto pare, consumata: esattamente l’ultimo piano della torre sull’isola in mezzo al Reno, dove l’arcivescovo si era rifugiato in tutta fretta, dopo essersi svegliato nel suo palazzo circondato da squittii furenti e con l’immagine ben stampata nella memoria (almeno secondo il componimento in versi di Robert Southey “La punizione del vescovo maligno”) dei suddetti animali che avevano già consumato interamente, cornice inclusa, il suo gigantesco ritratto posto di fronte alla porta d’ingresso principale. Laddove l’onda pelosa, così prosegue quel racconto, lungi dal perdersi d’animo avrebbe piuttosto messo in atto una strategia paragonabile a quella delle formiche tagliafoglie soggette alle grandi piogge dei monsoni, annodando zampe e code per aumentare la superficie galleggiante. E sbarcando, al costo di tante vite baffute rimaste annegate nel corso dell’operazione anfibia, presso le alte mura della Mäuseturm, per poi iniziare a risalirle con una velocità impressionante, fino alla sala più elevata che ospitava il corpo tremante di Hatto II. Risultato? Lo scheletro scarnificato del colpevole, a perenne ammonimento di chiunque potesse essere abbastanza folle, o spietato, da pensare di seguirne l’empietà.
Per quanto concerne l’effettiva storicità di questa vicenda, come sopra menzionato, esistono numerose riserve. E non soltanto in merito alla parte sovrannaturale della stessa, bensì anche per la presunta efferatezza dell’arcivescovo in questione, secondo alcuni effettivamente attribuita per mera quanto erronea assonanza al precedente portatore dello stesso nome e carica, quell’Hatto I vissuto quasi un secolo prima, verso il termine del regno dei Franchi Orientali, discendenti diretti dell’impero di Carlo Magno. Al cui periodo di governo religioso a quanto pare particolarmente autoritario e crudele (benché non si abbiano racconti effettivamente paragonabili a quello dell’incendio di un granaio gremito di postulanti) sarebbe stato posto fine tramite un qualche tipo di atto da parte del Diavolo che l’aveva mandato su questa terra, a scelta tra l’impatto diretto di un fulmine, essere trafitto a morte da una copiosa quantità di frecce o cadere “accidentalmente”, niente meno che, dentro la bocca del cratere incandescente dell’Etna. Oppure, inutile dirlo, finire nello stomaco dei topi in circostanze paragonabili a quelle del suo presunto successore. Creature forse tra le più temute dell’intera epoca medievale, per la loro capacità di accompagnarsi a pestilenze o carestie, e proprio per questo considerate alla stregua di vere e proprie piaghe bibliche o punizioni divine. E proprio per questo ricorrenti in simili leggende tra cui forse la più antica e celebre resta, ad oggi, quella del principe Popiel II, della tribù dei popoli proto-polacchi dei Goplani e Polani, che in epoca di poco antecedente a questi eventi (si parla di nono secolo) avrebbe fatto ubriacare con l’inganno i suoi dodici zii cospiratori, che intendevano spodestarli. Per poi ucciderli e nasconderne i corpi in una caverna, se non che una nutrita schiera di ratti avrebbe, a quanto pare, finito per nutrirsene ricevendo nel contempo la loro imprescindibile volontà vendicativa. E devo veramente dirvi, a questo punto, quale orribile destino avrebbe atteso il “povero” Popiel?
Una storia molte volte ripetuta dunque, eppure mai altrettanto in grado di far breccia nella fantasia popolare quanto il caso specifico dell’arcivescovo Hatto II, per quanto incerta possa esserne l’attribuzione. Questo forse anche grazie al già citato componimento in versi di Robert Southey del 1799, ma anche per la grande quantità di canzoni fokloristiche, fiabe e storie cautelative tramandate dal popolo tedesco, in merito a questa particolare dimostrazione del modo in cui il mondo, molto spesso, sembri possedere la capacità di porre rimedio ai suoi sbagli.
Che in un certo senso può anche possedere una duplice chiave di lettura, poiché se è vero che gli umani sono illimitati nella quantità e qualità dei propri gesti malefici, qui ci premurava di specificare come talune fameliche aggressioni ad opera dei roditori fossero, d’altra parte, pienamente giustificate e in un certo senso indotta dallo stesso desiderio imprescindibile della Iustitia divina. Una verità a cui noi molto spesso preferiamo non pensare, ogni qualvolta i notiziari parlano dell’ultimo baffuto ed “abusivo” abitante della nostra capitale, fuoriuscito per errore dalle fognature che dovrebbero nasconderlo in Eterno. O per lo meno, fino al giorno (totalmente apolitico) del sommo Giudizio Universale…