La nave approdata sui fondali del Baltico cinque secoli fa

Comunque vadano le cose, non avrete mai ragione di arrivare a chiamarmi “un relitto”. Poiché quando giungerà il mio momento, io non affonderò. Non finirò sugli scogli, non verrò colpita dal fuoco dei cannoni nemici e nessuna secca traditrice potrà erodere bruscamente l’integrità del mio scafo. Bensì ritenendo, finalmente, di aver fatto abbastanza, e per la prima volta indifferente ai desideri dell’equipaggio, io sceglierò di sostare tra l’onde. E una volta trovato il coraggio, e la totale assenza di rimorsi, necessari a porre fine alla mia esistenza, inizierò a DIRIGERMI verso il basso. Lasciando scomparire gli assi fino alle alte murate, quindi il poderoso castello di poppa e infine gli alberi e le vele, che tanti porti avevano visitato. Mentre i gelidi flussi abissali porranno fine agli sforzi, il pensiero e i miei desideri di nave. Ma del tutto indigesto dovrà risultare, il mio legno e il sartiame di queste corde, per innumerevoli generazioni di granchi, vermi, batteri e altri microrganismi…
Difficile risulta immaginare l’attimo della fine, se non in siffatto modo, per quella che ad oggi ha trovato il nome altamente significativo di Okänt Skepp (ovvero in svedese: Nave Sconosciuta) grazie all’opera d’inizio settimana del Dr. Rodrigo Pacheco-Ruiz con il suo intero team d’archeologi degli abissi, instradati sul giusto sentiero da un vecchio rilevamento sonar della SMA (Swedish Maritime Administration) durante una serie di controlli di routine delle acque del Baltico. E dico questo perché, osservando un simile oggetto, risulta estremamente difficile comprendere cosa, nei fatti, possa averne provocato l’inabissamento. Di una nave perfettamente integra in ogni sua parte, compresa la struttura principale, la scialuppa di servizio, alcuni cannoni girevoli e l’argano a forza muscolare, usato per avvolgere funi e riportare l’ancora sul ponte, ogni qualvolta se ne fosse dovuta presentare la necessità. Un qualcosa che difficilmente potrebbe capitare di nuovo, ora che, ad oltre 500 anni di distanza, ogni singolo membro del suo equipaggio sarà defunto da svariate generazioni, indipendentemente dal suo destino in occasione dello strano, direi quasi inspiegabile naufragio. Non che manchino, chiaramente, ulteriori margini d’approfondimento: siamo del resto di fronte al singolo relitto maggiormente integro ritrovato a distanza di così tanti anni, al punto che alcuni potrebbero sospettarne la discesa al di sotto della superficie marittima non più di qualche settimana, o al massimo mese fa. Nave che sembrerebbe risalire, almeno in via preliminare, all’epoca delle grandi scoperte (in attesa di datazione al carbonio 14) ovvero attorno al XV-inizio XVI secolo, prima dei galeoni e le grandi navi di linea che avrebbero dominato, in epoca pre-moderna, i vasti mari del Nord. Con una struttura complessiva di 18 metri, essenzialmente paragonabile a quella coéva della Santa Maria, nave ammiraglia della spedizione di Cristoforo Colombo verso le dorate spiagge del Nuovo Mondo. La cui lontana sorella destinata a una fine tanto più ingloriosa potrebbe offrirci, almeno in linea di principio, nuove intriganti finestre d’osservazione verso l’effettiva natura della navigazione in quegli anni…

Per la realizzare la riproduzione fotogrammetrica mostrata in apertura, la nave sconosciuta è stata sottoposta ad un innovativo processo di misurazione mediante l’impiego di droni a controllo remoto con puntatori laser, perfezionato per l’occasione dagli studenti del CMA (Centro per l’Archeologia Marina) dell’Università di Southampton, di cui il Dr. Pacheco-Ruiz è membro.

La sopravvivenza in condizioni tanto incredibilmente integre della Okänt Skepp risulta essere, ad ogni modo, tutt’altro che inspiegabile e misteriosa. Trovando la principale giustificazione scientifica nelle particolari condizioni acquatiche del Mar Baltico, dove il basso contenuto salino e la carenza d’ossigeno avevano già contribuito, notoriamente, a preservare intatto un alto numero di antiche navi. Questo per una serie di eventi verificatosi più volte attraverso almeno gli ultimi 1.500 anni, a seguito dei quali la forte stratificazione delle acque e la bassa circolazione di questo mare avevano causato delle devastanti catene trofiche, con deperimento pressoché totale di ogni forma di vita, più o meno complessa, in ampie zone nascoste al di sotto del moto ondoso. Casistiche diventati ancor più frequenti ed estese dall’inizio dell’epoca moderna, a causa dell’eutrofizzazione (fioritura delle alghe) in prossimità delle zone costiere, capace di bloccare ulteriormente la naturale discesa di quelle due risorse fondamentali per la vita, che sono la luce e l’ossigeno. Il che costituisce un male per qualsivoglia forma di vita ma a quanto pare, un’ottima cosa per i lavoro degli archeologi di località sommerse, intenti a rintracciare i chiari segni del passaggio di coloro che erano venuti (per mare) svariate generazioni prima di noi. Questione la quale, ad ogni modo, non dovrebbe in alcun modo sminuire l’eccezionale ritrovamento di questi giorni, in se stesso persino più antico, e infinitamente più integro, della possente nave da guerra Mars ritrovata nel 2011 nelle stesse acque, vascello appartenuto a niente meno che il re Erik XIV di Svezia (1533-1577) e finita per affondare dopo aver preso fuoco durante la prima battaglia di Öland del 1564, nel corso della guerra nordica dei sette anni, per stabilire quale monarca avrebbe potuto vantare il predominio di tutte le terre scandinave, dinnanzi ai contemporanei e i posteri dei rispettivi paesi. Causando la morte stimata di oltre 800 marinai ed a seguito della sua devastazione di superficie, il totale disgregamento della struttura dello scafo, destinato ad essere ritrovato al confine dei nostri giorni dal sub cercatore di relitti Richard Lundgren, letteralmente disgregato in numerosi frammenti e lungo svariati chilometri del silenzioso fondale. Laddove se il nuovo battello delle profondità brilla per un qualcosa, ciò è senz’altro la sua notevole integrità, qualità molto difficile da riscontrare per chi svolge simili lavori. Fatta eccezione, potenzialmente, per il nuovo eroe della situazione Rodrigo Pacheco-Ruiz, ricercatore dell’Università di Southampton già famoso per la sua partecipazione al lungo estendersi del MAP (Maritime Archaeology Project) nelle acque dell’altrettanto privo di ossigeno e dunque poco corrosivo Mar Nero, valso il ritrovamento nell’ultima decade di svariate decine di navi ragionevolmente complete, tra cui quella del 2018 risalente addirittura a due millenni e mezzo fa. Completa di vaso di terracotta, quasi troppo eccezionale per essere vero, raffigurante l’episodio dell’Odissea col protagonista eponimo che si era fatto legare all’albero maestro, pur di resistere al pericoloso richiamo delle sirene. Un evento che forse, chissà, potremmo porre in connessione remota anche con l’inspiegabile affondamento della neo-fotografata Okänt Skepp.

La particolare condizione delle acque del Baltico ha già costituito, attraverso la storia recente, un importante alleato di studiosi e archeologi. Benché un ulteriore ridursi dell’ossigeno, a causa dell’aumento di temperatura di tutti i mari terrestri, sia effettivamente destinato a costituire un rischio considerevole per l’ambiente.

Detto ciò, pesci: non illudetevi di poter tornare a dormire. Quello che dovrà essere approfondito infatti, nel corso delle immersioni previste nelle prossime settimane, sarà l’effettiva ragione per cui tale nave abbia smesso, improvvisamente, di galleggiare. In un’epoca in cui l’attacco dei pirati risultava essere certamente tutt’altro che raro, come anche testimoniato dalla presenza delle già citate armi a bordo, almeno apparentemente ancora del tutto pronte a far fuoco. Nel corso di un’epoca transitoria che risultava essere, almeno per quanto ne sappiamo, di sostanziale pace. Ma il riposo eterno delle ossa della nostra civilizzazione, siano esse letterali o composte d’assi, travi e altre strutture in legno, non può mai definirsi tali. Finché esisterà quel desiderio o anelito, che ogni porta pretende di scardinare, qualsiasi forziere, d’aprire: l’umana curiosità. Solennemente indipendente dalla presenza, o eventuale assenza, dei silenziosi testimoni ittici delle nostre gesta.

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