Totalmente solo nelle sue costanti peregrinazioni, l’orso nero americano è una creatura che non corre rischi, tranne quando necessario. Predatore/Raccoglitore/Pescatore, per cui il preciso andamento delle stagioni può fare la differenza tra la vita e la morte, mentre il mero movimento ai margini del proprio ambiente, di quella figura bipede con il fucile sottobraccio, può segnare l’attimo e il momento al termine del proprio viaggio tra i viventi. Ma vuole la leggenda, o totemica credenza delle antiche tribù, che una diversa manifestazione di questa creatura possa raramente rendersi apparente, tra i tronchi secolari di conifere svettanti, dal mantello candido come il lenzuolo che, per lo stereotipo internazionale dell’epoca contemporanea, rappresenta convenzionalmente un fantasma. Assolutamente terrificante. Poiché, per quanto ne sappiamo, non puoi uccidere ciò che è già morto. Del resto questo non significa che alcuni tentino di farlo, in maniera forse più indiretta, ma non meno priva di attenzione per le conseguenze di un tale gesto…
Uno dei momenti più importanti nella storia della più grande foresta temperata al mondo nonché l’immediato o meno prossimo futuro di questo intero pianeta può essere individuato probabilmente nell’estate del 2015, nella provincia nordamericana della Columbia Inglese, presso il corso argenteo del ruggente fiume chiamato dai nativi Wedzin Kwah. L’intero incontro, registrato per i posteri, si svolge come la sequenza di un film: da una parte gli ingegneri della Chevron, compagnia incaricata di costruire il controverso oleodotto transcontinentale da 1,23 miliardi del PTP, con gilet arancioni da lavoro, ed al seguito il tradizionale dono di acqua imbottigliata e tabacco, pronti a perorare la causa del progresso dinnanzi al popolo dei Wet’suwet’en, abitanti storici di questo luogo. Dall’altro gli anziani del clan Unist’ot’en, diventato in questi anni un importante baluardo dell’integrità naturale di un simile luogo, che ancora una volta rifiutano ogni proposta messa sul tavolo delle trattative, per quanto possa essere economicamente allettante, mentre la loro portavoce eletta elenca le molte ragioni per cui preservare l’integrità della natura dovrebbe essere un sacro dovere di tutti, non soltanto chi ne abita i recessi più incontaminati, ancorché puri. Entrambe le parti appaiono calme, eloquenti e straordinariamente dignitose, almeno fino al momento conclusivo in cui agli uomini venuti dalla grande città non viene lasciata altra scelta che riprendersi i propri ingombranti “regali” e caricarli con umiliazione dentro il fuoristrada, seguendo un copione molto chiaro nella mente di chi aveva posto una così anacronistica condizione prima del confronto.
Ora, per quanto ci è dato di sapere, nessuna grossa sagoma osservava un simile frangente dalla riva più distante, perfettamente immobile per non risaltare come un telo catarifrangente color crema chiaro. Eppure, se così fosse stato, mi piace immaginare in questo ruolo un vecchio e saggio esemplare di Ursus americanus kermodei, comunemente denominato moksgm’ol, o spirit bear. Benché in determinati ambienti accademici, la sua definizione preferita sia stata cristallizzata in Kermode (pron. Kermo-dee), dalla storpiatura fonetica del nome del naturalista e responsabile del Royal B.C. Museum della città di Victoria, Frank Kermode, primo a descrivere scientificamente le specifiche caratteristiche di un tanto raro, nonché relativamente sconosciuto animale. Capace anch’esso di pronunciare, con i gesti ursini se non le ringhianti parole, frasi sulla falsariga di: “Phew, almeno quest’oggi mi è andata bene. Ora, dove avevo visto ieri il più vicino casello di quell’autostrada per salmoni…?”
Nota: il video di apertura, mostrante un esemplare di spirit bear mentre attraversa un tronco caduto di traverso sul fiume, è stato catturato da un anonimo esploratore (o esploratrice) che ha quindi di scelto di pubblicarlo online con l’assistenza del popolare aggregatore di contenuti ViralHog.
Tanto chiara e assai diffusa risulta essere, quindi, la cognizione largamente data per scontata di cosa dovrebbe essere, esattamente, un orso bianco. Il particolare mammifero marino (poiché formalmente, di questo si tratta) che vive in prossimità del Circolo Polare Artico, salvo improbabili trasferimenti per finalità scientifiche tutt’altro che chiare (cit. telefilm Lost) o irrecuperabili derive sopra gli iceberg trascinati via dalla corrente. Una creatura, questo Ursus maritimus, assai diversa dai entrambi i più tipici plantigradi nordamericani, sia dal punto di vista morfologico che dei comportamenti e lo stile di vita. Sto parlando, naturalmente, del comune Ursus americanus o orso bruno e il suo cugino ancor più sovradimensionato e terrificante, l’Ursus arctos o grizzly bear. Quello che non tutti probabilmente sanno, per non dire poi quasi nessuno, persino tra le comunità urbane delle zone limitrofe a simili recessi, è che nella più grande ed ultima foresta temperata del pianeta esiste una particolare sottospecie del primo di questi due gruppi, essenzialmente più rara del panda gigante, il cui pelo non ha niente da invidiare, in quanto a candore, al feroce divoratore delle foche o altre creature sub-glaciali del gelido settentrione. Ciò per quanto l’uso del termine “sottospecie” non sia nei fatti del tutto corretto, trattandosi piuttosto di una rara anomalia genetica, data da un gene recessivo e che deve essere per questo presente sia nel patrimonio del padre che della madre, affinché l’orsetto possa nascere in parte o del tutto bianco. Il che sembra essere avvenuto, negli ultimi tempi, con frequenza appena sufficiente a garantire una popolazione complessiva, in costante riduzione, di appena 200-300 esemplari, nonostante l’istintiva tendenza degli orsi ad accoppiarsi con partner dello stesso colore, prassi ipotizzata derivare da un remoto ricordo dell’imprinting materno. Il che non sempre basta soprattutto per il fatto che, benché tale creatura sia severamente protetta, non risultano esserlo i suoi simili dal manto nero, i quali molto spesso possono essere dei portatori “sani” del gene bianco in forma dormiente, risultando quindi inerentemente pronti a dare continuità alla versione “shiny” che tanto ha fatto e continua a fare per il turismo locale.
Detto questo, lungi dal costituire una mera curiosità situazionale, la particolare colorazione dell’orso Kermode sembrerebbe in realtà derivare da un effettivo inizio di un processo d’evoluzione, come teorizzato in un famoso studio del 2009 dei biologi Dan R. Klinka e Thomas E. Reimchn, capaci di dimostrare statisticamente come gli orsi di colorazione chiara risultassero meno visibili in controluce dalle loro prede elettive della stagione primaverile, i salmoni in viaggio verso l’entroterra prima dell’accoppiamento, riuscendo conseguentemente a catturarne una quantità maggiore e potendo riservare quindi una quantità maggiore di ore all’impagabile riposo.
Il discorso sulla conservazione dell’orso dello spirito si è quindi trasformato, negli ultimi anni, in un importante argomento di rilevanza politica e sociale, particolarmente in relazione al problematico progetto della Pacific Trail Pipeline o PTP. Al punto che volendo scegliere un’interpretazione particolarmente ottimista, proprio sua potrebbe essere stata l’encomiabile responsabilità di far pendere la bilancia dalla parte del No quando a novembre del 2016 il premier eletto da un anno nel paese, Justin Trudeau, prese atto della decisione sostenuta a più livelli nel suo governo, apponendo il veto delle istituzioni sull’appalto precedentemente dato in carico alla Chevron.
Lasciando comunque ben poco tempo per celebrare agli anziani dei Unist’ot’en e gli altri clan dei Primi Popoli, abitanti indigeni di questo straordinario polmone che è la Great Bear Forest, mentre già venivano approvati contestualmente altri due oleodotti più corti, benché altrettanto potenzialmente lesivi per la continuativa sopravvivenza di entrambe le tipologie di orso “bruno”. Che almeno in questo, non è mai solo: poiché se è vero che l’ambiente naturale costituisce un sistema d’interrelazioni e connessioni capaci di dare continuità al grande flusso, sarebbe semplicemente ingenuo, per non dire arrogante, porre l’uomo al di sopra di un simile meccanismo. Riusciremo finalmente a scoprire, un giorno, il funzionamento degli ingranaggi alla base della nostra stessa effettiva sopravvivenza?