Devastatrice senza nome dei pascoli color cobalto negli abissi sconosciuti, grande busta che si gonfia, per fagocitare l’acqua ed il suo contenuto brulicante, di innumerevoli presenze nuotatrici. Quando chiude finalmente quella bocca, al tramonto del distante Sole, nel suo stomaco soggiornano 70, forse 80 milioni di creature. La cui dimensione infinitesimale non è stata sufficiente, per nasconderle alla grande fame del più grande predatore mai esistito sul pianeta Terra, mostri della Preistoria inclusi. In molti hanno guardato, per restare affascinati, la maestosa forma della Balaenoptera musculus (raro caso di umorismo tassonomico: il nome può significare “topolino”) ma quanti in precedenza hanno avuto veramente modo di acquisire, grazie alla tecnologia dell’alta definizione, l’effettiva grazia ed eleganza di un simile titano… Che lungi da trovarsi caratterizzato dalla forma tozza, e qualche volta non propriamente aggraziata di alcune sue parenti, prossime o distanti, rappresenta la più ragionevole approssimazione di una nave spaziale, entità in merito a quale condivide forma, capacità e in taluni casi, anche le dimensioni. C’è del vero a voler essere pignoli, pure nell’affermazione che vedrebbe un tale essere raggiungere le dimensioni impressionati di oltre 30 metri di lunghezza; benché un tal caso, contrariamente all’immaginazione popolare, risulti essere nei fatti alquanto raro. Laddove la media tende ad aggirarsi tra i 20-25 metri, per almeno due delle tre sottospecie riconosciute (B. m. musculus e B. m. intermedia) ed eccettuata la balenottera azzurra pigmea (B. m. brevicauda) occasionale abitante dell’Oceano Indiano.
Altri aspetti, invece, risultano essere perfettamente condivisi. Tra cui il metodo per cui si spingono impiegando la possente coda (principale musculus cui allude il latinismo di Linneo) ed il timone comparativamente piccolo della pinna dorsale, talvolta non più lunga di 30-40 cm. Il che non impedisce, come osservabile dal video riportato in apertura dal programma della BBC con voce dell’irrinunciabile Attenborough del 2015 “The Hunt: Hunger at Sea” alla massiccia presenza dei mari di dirigere la propria sagoma imponente con l’eccezionale precisione, ed attenzione, necessaria ad incrociare il transito dei branchi di crostacei, soprattutto krill e cobepodi, che costituiscono la parte principale della propria dieta. Benché allo spalancarsi delle fauci plissettate, ella non manchi d’ingurgitare anche l’occasionale pesce, mollusco o altra malcapitata creatura che dovesse trovarsi a passare di lì. Ma mai maggiore, nelle dimensioni, del prototipico pallone da spiaggia, la cui dimensione è stata utilizzata per descrivere la dimensione dell’esofago di un tale monstrum dei mari. Tutt’altra storia rispetto alle presunte dimensioni delle sue arterie, all’interno delle quali, si usa dire: “Potrebbe nuotare un bambino!” Si spera per sua scelta, diversamente dall’esperienza incredibile vissuta dal più celebre burattino italiano…
Sta facendo nuovamente notizia in questi giorni la controversa decisione del governo giapponese di riaprire, nonostante gli accordi precedentemente presi come membro della IWC (International Whaling Commission) di riaprire la caccia nei confronti di diverse specie di cetacei, tra cui per l’appunto la balena minke o rorqual minore dei mari del Nord (Balaenoptera acutorostrata) utilizzatore lungo 7-8 metri della stessa metodologia filtrante per la cattura e fagocitazione dell’indistinta biomassa abissale, il sistema dei fanoni. Questo benché tali approssimazioni altamente specializzate del concetto di una dentatura abbiano perso, al giorno d’oggi, l’antico valore come materiale per la produzione di corsetti femminili, mentre la stessa carne di tali esseri rappresenti oramai soltanto una percentuale minima degli ingredienti gastronomici diffusi nel paese del Sol Levante. La cattura di un simile gigante rappresentava, dopo tutto, acquisizione in termini di risorse tutt’altro che trascurabile per i pescatori delle epoche antecedenti alla modernità, benché oggi i metodi dell’industria e l’economia massificata possano far molto al fine di mitigare un simile senso del trionfo umano sulla natura. Il che non impedisce, purtroppo, a talune figure della politica e l’organizzazione normativa delle nazioni tradizionalmente collegati a una tale pratica, di considerarla tutt’ora una preziosa risorsa culturale, da preservare e mantenere in opera per le future generazioni, anche a discapito di quell’altro tipo di patrimonio, che potremmo idealmente individuare negli oceani incontaminati del nostro pianeta.
Detto questo, la caccia fino all’estinzione del particolare essere da noi preso in esame, fino a questo punto, non ebbe modo di verificarsi fino alla metà del XIX secolo e particolarmente a partire dal 1864, con la creazione brevettata dal marinaio e imprenditore norvegese Svend Foyn del cannone capace di sparare l’arpione esplosivo, unica arma, o strumento che dir si voglia, capace di arrestare l’inesorabile marcia di una vera e propria balenottera azzurra. 140-150 tonnellate di battello sommergibile in carne ed ossa, capace di muoversi fino alla velocità di 50 Km/h se adeguatamente motivato. Ragion per cui, prima di allora, nessuno avrebbe mai presunto di anteporlo alla cattura di più facili, e allo stesso tempo redditizie, balene dentate altresì dette gli odontoceti. Finché al colpo clamoroso di una simile esplosione, tra i mari gelidi dei distanti recessi settentrionali, non venne scoperto quale eccezionale profitto fosse possibile trarre dalla carcassa di un simile gigantesco essere. E quanto, da quel momento, immisurabili ricchezze dovessero sembrare a portata di mano…
E sebbene non sia sempre possibile avere abbastanza di una cosa buona, sarebbe passato un tempo alquanto breve prima che l’umanità, metaforicamente parlando, finisse per ostruire il proprio esofago con la deliziosa, preziosa, costosissima carne della balenottera azzurra. La cui genìa, notoriamente ed altrettanto tristemente, andò incontro ad una riduzione sistematica degli esemplari complessivi, dai 400.000 stimati all’inizio di quell’epoca di sangue fino ai circa 10-25.000 della stima attuale (il conteggio è comprensibilmente difficile da finalizzare) comunque molti, e al tempo stesso troppo pochi, perché si possa garantire in futuro la sua continuativa esistenza tra i flussi inconoscibili dei Sette Mari.
Oggi questa particolare specie considerata potenzialmente intelligente, e per questo troppo preziosa come sintetizzato dalla famosa citazione dell’autore di fantascienza Arthur C. Clarke “Noi non sappiamo cosa stiamo distruggendo” resta giustamente protetta da leggi internazionali. La cui appropriatezza viene ad oggi, pressoché costantemente, ridiscussa e sottoposta ad approfondite analisi giurisdizionali. Dopo tutto, cosa importa se la caccia di questi giganti serva ancora a qualcosa? Ciò che conta è la conservazione degli antichi metodi e il mantenimento delle usanze umane.
Che devono per forza essere la prima, nonché l’ultima delle nostre preoccupazioni! A riconferma ulteriore (davvero necessaria?) di cosa significhi essere “il più grande” predatore di questo intero recesso del cosmo, in silenziosa attesa. Per infinite eternità di solitudine, che nessuno potrà mai chiamare immeritata.