Sulla tavola imbandita di una cena formale, capace di riunire i membri di un’intera famiglia divisa dagli eventi e i casi della vita, feroci condottieri si combattono per prevalere nella guerra senza fine del gusto e dei sapori. Lì uno Chardonnay di Franciacorta, pronto a galoppare in mezzo ai piatti più corposi, per sorprendere la fanteria in attesa dietro la collina. Mentre dietro i suoi vessilli, in controluce, il Nebbiolo d’Alba impugna gli archi ereditari del suo clan, sicuro di riuscire a cogliere nel centro del bersaglio, riuscendo ad immobilizzare le manovre del nemico. “Oggi è il giorno in cui coroneremo i nostri sogni di vittoria” enuncia nella lingua inaudibile degli oggetti, il Malvasia di Casorzo con l’emblema sulla fronte, la maschera da demone a coprire l’orgoglioso tappo: “Sughero, vetro oppur cartone (puah!) non potranno più riuscire a contenerci. Questa è l’ora della nostra Sekigahara. Brindiamo, alla restituzione del Giappone al suo legittimo Erede!” Ma qualcosa, nel preciso piano di battaglia, sembrava essere andato per il verso sbagliato. Mentre l’attacco gastronomico dei piatti della seconda portata, per qualche ragione, ritardava il suo ingresso in battaglia. Possibile… Un cedimento alle lusinghe di chi offriva improbabili sogni di gloria? Finché l’orribile rivelazione: all’interno del cerchio tracciato dal piatto in ceramica, neanche l’ombra dorata di un pesce. “È carne, hanno servito la carne… Richiamate gli uomini, dobbiamo cambiare strategia!”
Il periodo delle guerre civili giapponesi è quell’Era durata oltre un secolo tra il 1497 e il 1603, che dopo essersi protratta attraverso svariate generazioni di raffinatissimi e abili guerrieri, fu portata a compimento all’improvviso in una singola battaglia, per la tardiva risoluzione un daimyo (signore della guerra) indeciso. Quel Kobayakawa Hideaki nipote del grande capoclan e conquistatore Hideyoshi che, per la vaga promessa di un feudo da 500.000 koku, all’ultimo momento scelse di schierarsi dalla parte dell’usurpatore, colui che sarebbe passato alla storia con il nome di Tokugawa Ieyasu. Il che gli avrebbe consentito, incidentalmente, di passare alla storia. Ma soltanto fino a un certo punto. Poiché non sono i furbi. Né i vincenti, o gli scaltri, ad incarnare il vero spirito del samurai. Che trova un’importante espressione traversale, fin dall’epoca della Restaurazione del potere politico di colui che regnava a Kyoto, l’Imperatore (1868) nella beneamata tradizione del Tango no sekku o quinto giorno del quinto mese (5 maggio) anche detto festa dei bambini ed oggi anche delle bambine, benché a quest’ultime venga riservata anche una diversa ricorrenza soltanto per loro, quella del 3 marzo della Hinamatsuri o festa delle bambole. Anch’essa caratterizzata, come nel saliente caso, dall’esposizione di particolari figurine antropomorfe, realizzate secondo attente metodologie tradizionali. Raffinate ed eleganti effigi della nobiltà di corte, per le giovani appartenenti al gentil sesso. E guerrieri in armi pronti alla ferocia inusitata della guerra, per tutti coloro che dovranno crescere appartenendo alla metà opposta del cielo. E c’è una sorta di pregevole senso di responsabilità ereditario, nell’opera di artigiani come Yasuhiro Ohkoshi della Tadayasu Co. della città di Saitama nell’omonima prefettura, fabbricante dal 1964 di tali emblematiche yoroi (armature) per una clientela dai gusti particolarmente difficili e ricercati. Almeno finché, attorno ad un periodo risalente all’incirca a 5-6 anni fa, uno specifico ordine ricevuto non gli avrebbe aperto gli occhi: ” È magnifico scoprire che la mia arte ha il potenziale di far conoscere il Giappone nel mondo. Anche se dovrò affiancare una produzione di semplici gadget allo stile prestigioso che ha sempre caratterizzato il mio lavoro”. Il tutto, attraverso l’assistenza nel compiere un gesto straordinariamente internazionale ed umano: preservare per qualche la freschezza della bottiglia di vino, aperta per gli ospiti e alla fine, tristemente, lasciata a evaporare nel suo trasparente contenitore…
Si dice che l’anima del samurai sia la spada, il che è un concetto forse all’origine del concetto di questa particolare classe guerriera, tornato straordinariamente popolare nella lunga epoca di pace succeduta alla suddetta battaglia, durante la quale la capitale rimase in quell’Edo (odierna Tokyo) che era la base operativa di Tokugawa. Ciò detto, durante i sanguinosi sconvolgimenti in armi del Sengoku, ciò che permetteva di riconoscere un condottiero dall’altro erano primariamente due cose: il suo vessillo portatile, attrezzato sul corpo principale della corazza, e il favoloso elmo fattosi costruire su misura, capace di rappresentare in qualche modo il suo gusto estetico e, almeno si spera, incutere timore nei suoi avversari. Durante l’intero corso di un tale secolo di conflitti, dunque, l’arte di costruzione ed allestimento del kabuto raggiunse vette inimmaginabili in qualsiasi altro paese del mondo, con guerrieri capaci di andare in battaglia recando chiara l’effige di mostri, demoni, animali ed insetti. Alcuni scelsero nel frattempo di andare più dritti al punto, sostituendo tali soggetti con ideogrammi prelevati direttamente dal proprio motto o nome familiare. Di nuovo, ad ogni modo, i soggetti delle riproduzioni maggiormente apprezzate nel corso della festa dei bambini, nonché i copribottiglia della Tadayasu, non sono quelli più appariscenti e bizzarri della compagine, bensì l’eredita esteriore di alcuni dei guerrieri maggiormente significativi e stimati della loro Era. Tra cui, inevitabilmente, il primo shogun della sua dinastia Tokugawa Ieyasu capace di raggiungere l’età veneranda all’epoca di 73 anni, per un augurio di lunga vita associato alla sua figura. Ma anche il suo insigne predecessore, nel trio dei riconosciuti unificatori di quel paese, Oda Nobunaga, che perì nelle fiamme del grande tempio a causa del tradimento di un suo subordinato. Eppur famoso e considerato encomiabile, a suo modo, per la sua sagacia dimostrata nel corso delle precedenti campagne portate a compimento. Che non gli permisero mai, tuttavia, di sconfiggere il tradizionalista Uesugi Kenshin dall’armatura bianca come la neve delle sue montagne, depositario di una più antica visione di quello che dovesse essere, o rappresentare, il guerriero di un perfetto Giappone, scontrandosi dozzine di volta con la sua nemesi la tigre del Kai (Takeda Shingen) senza che l’uno, oppur l’altro, potessero prevalere. Mentre di quest’ultimo e particolarmente amato guerriero, spesso figura di primo piano nelle collezioni del Tango no sekku, nella selezione dei copribottiglia non vi è alcuna traccia, con la sostituzione se vogliamo di una valida controparte: il suo vassallo e successore morale (nell’ideale se non nei possedimenti) Sanada Yukimura l’ineccepibile guerriero, con il riconoscibile elmo dalle sei monete bucate, destinato a combattere fino alla tarda età nel risolutivo assedio del castello di Osaka, che avrebbe portato alla sconfitta definitiva del legittimo erede Hideyori protetto dalla coalizione di Ishida Mitsunari a Sekigahara, con la vittoria finale dell’ormai inarrestabile esercito dei Tokugawa. E tutto per il tradimento di un cuoco indeciso o amante delle sorprese, incapace di far conoscere in anticipo il suo menù. Chiude la carrellata Date Masamune, famoso condottiero monocolo dell’area di Sendai, riconoscibile dalla poderosa mezzaluna che campeggia sulla cima del suo kabuto.
L’idea, in fondo, può sembrare inutile ma non per questo priva di velleità encomiabili. Produrre dei tappi da vino particolarmente stravaganti che costituiscano un sentiero di accesso indiretto verso tali aspetti estremamente autentici della cultura dell’arcipelago giapponese. Di cui tanta parte della nostra visione globalizzata del mondo, al giorno d’oggi, dipende in maniera tutt’altro che trascurabile. Basti vedere la popolarità dei robot giganti con le loro stravaganti livree e forme, fondamentalmente nient’altro che una tradizione in plastica e acciaio di quello che anticamente, doveva rappresentare il condottiero in armi sui campi di battaglia dei samurai.
Tutto questo, s’intende, ad una cifra commisurata all’effettiva sapienza di colui che si è occupato di concepire l’idea: 30.000 yen al singolo tappo, corrispondenti grossomodo a 244 euro. Ma si può mettere davvero un prezzo alla gloria e l’ebbrezza della battaglia, in un contesto come quello dell’alta enogastronomia? Per chi fosse abbastanza coraggioso da affrontare una simile sfida, dunque, consiglio una visita presso il sito ufficiale della compagnia. Per la versione in lingua inglese non è previsto un E-Commerce, bensì un semplice modulo di contatto da compilare manualmente. Ma immagino che un qualche tipo d’accordo sia tutt’altro fuori che dal regno del possibile. Dopo tutto, l’esportazione fa parte della dichiarazioni d’intento dell’artista stesso.