Per lunghi anni schiere di sociologi hanno teorizzato l’esistenza, da qualche parte, di un nucleo centrale nel vasto contesto iper-urbano della città di New York. Il mozzo della ruota, o se vogliamo, il torsolo della (grande) Mela, ove trovare finalmente sublimato quel principio estremamente pervasivo che sin dall’alba dei tempi porta l’uomo, in ogni suo momento, a perseguire l’utile finalità dell’aggregazione. In luoghi come Manhattan, Brooklin, Queens… Presso i viali ordinatamente alberati, all’ombra dei grattacieli, tra i recessi zigzaganti del sempre affascinante Central Park. Ove la gente è più felice o in qualche modo, pronta a condividere i propri momenti nel tentativo di amplificare la soddisfazione generale del momento presente e tutto ciò che in qualche modo, può derivarne nell’immediato o più remoto futuro. Mentre nel frattempo, un consorzio maggiormente eclettico di studiosi, filosofi, artisti e cacciatori di tesori, hanno scelto di porsi un differente tipo di domanda. Con la finalità di comprendere, dal canto loro, il Come piuttosto che il Perché, giungendo in forza di ciò presso i recessi non propriamente gradevoli di un Dove dall’aspetto estremamente diverso. Luoghi come Barren Island (l’Isola Desolata) e il braccio di acqua salmastra che la fronteggia inondato d’inconoscibili rifiuti e chiamato convenzionalmente: Dead Horse Bay (la Baia del Cavallo Morto).
Ora immagino, comprensibilmente, che l’impiego di nomi carichi di suggestioni tanto inquietanti possa lasciare sorpreso un abitante come noi, del paese più bello e assolato del mondo, benché all’interno della concezione pragmatica di una soluzione urbanistica statunitense, dedicata a risolvere un problema estremamente reale, una simile cognizione assuma le tinte di una ben più plausibile verità. E dire che fino all’inizio del XVII secolo, l’intero piccolo arcipelago d’isolette note come Outer Barrier (Barriera Esterna) facenti parte dell’originale terreno “acquistato” dai coloni europei dietro risibili concezioni alle popolazioni native dei Lenape, erano rimaste l’area maggiormente incontaminata tra tutti i recessi dove l’Uomo Bianco, per presunto diritto divino, aveva scelto d’edificare le proprie svettanti strutture architettonicamente rilevanti. Finché attorno al 1850, alla brava gente di questi luoghi non venne in mente il modo in cui un luogo simile potesse costituire a tutti gli effetti l’ideale per confinarvi tutte quelle attività industriali che, in un modo o nell’altro risultavano sgradevoli nei confronti della popolazione. Luoghi come concerie di pelli maleodoranti, macellerie d’interiora, impianti per la processazione dei menhaden (Brevoortia patronus) tipici pesci di queste coste considerati così poco pregevoli da essere impiegati, comunemente, in qualità di fertilizzanti e soprattutto, più d’ogni altra cosa, tutte quelle industrie incaricate, in un modo o nell’altro, di trattare le carcasse d’animale recuperate per le strade della più importante città costiera dell’Est dopo la fine dell’epoca bostoniana. Verso la fine di quel secolo, quindi, l’Isola Desolata diventò la base di un’attività industriale a suo modo florida, benché le continue inondazioni del territorio paludoso, frane impreviste e tempeste provenienti dall’Atlantico avessero la problematica abitudine di spazzare via gli edifici barcollanti costruiti a tal fine. Venne quindi costituita una sorta di casta composta da circa 1.500 persone all’apice, largamente immigrati o persone di colore, incaricata di preservare l’antica eredità di tutto quello che una città poteva chiedere, purché rimanesse appropriatamente lontano da occhi, orecchie e naso dei pari contributori di una più appariscente quotidianità. Attorno agli anni ’20 del Novecento quindi, mentre simili attività venivano spostate ancor più lontano dalla città per arginare le lamentele dei quartieri limitrofi e i gli abitanti forzosamente spostati altrove (non che avessero granché da lamentarsi, considerata la natura malsana della loro sistemazione avìta) al potente ufficiale pubblico Robert Moses, all’epoca capo della Commissione Parchi nonché detentore di una piccola collezione di altre cariche fondamentali per l’amministrazione di New York, non venne la prototipica idea geniale: raccogliere tutte le montagne di spazzatura capaci di arginare i suoi progetti di miglioramento per il centro luminoso dei distretti cittadini e scaricarla sul territorio ormai diventato inutile di Barren Island. Non soltanto creando la più vasta discarica che gli Stati Uniti avessero mai costruito a un tiro di schioppo da zone tanto demograficamente rilevanti, ma provvedendo in una fase successiva a ricoprirla di sabbia e ghiaia prelevata dalla vicina Jamaica Island, al fine di unire le due terre emerse nella creazione di quello che sarebbe diventato Floyd Bennett Field, il primo aeroporto municipale della città. Non fu necessario attendere fino all’inizio della decade successiva, tuttavia (quella del 1930) per rendersi conto di come le cose non fossero destinate ad andare esattamente nel modo che era tanto accuratamente pianificato…
Ora chiunque abbia studiato, anche soltanto di sfuggita, il contributo di Robert Moses allo sviluppo urbanistico della Grande Mela, ben pochi dubbi potrebbe conservare in merito alle notevoli competenze ed aspirazioni di questa figura trasversale, chiamata talvolta il “mastro costruttore” di quello che avrebbe dovuto costituire, a tutti gli effetti, il palcoscenico del più perfetto sogno americano. Eterno rivale del futuro presidente Franklin D. Roosevelt, allora a capo della commissione parchi limitrofa dell’area dei monti Taconic, a lui venne attribuito il merito di numerosi ponti fondamentali per la viabilità, una rete dei trasporti urbana realmente efficiente e soprattutto, di aver traghettato le associazioni da lui supervisionate attraverso i difficili anni della crisi economica e poi non una, bensì due guerre mondiali, durante le lunghe generazioni successive. Ciò detto sarebbe certamente ingenuo trascurare, nella nostra narrazione, il modo sostanzialmente iniquo in cui egli si trovò a condurre l’intera questione di Barren Island e la corrispondente baia ricoperta di spazzatura. Detriti provenienti, in larga parte, proprio dagli sgomberi imposti per la suddetta riorganizzazione stradale, composta notoriamente dai pochi averi di un’intera classe sociale disagiata, che proprio in forza della propria mancanza di fondi risultava effettivamente incapace di noleggiare i mezzi utili al trasloco con l’interezza dei propri averi all’interno delle nuove case popolari. All’epoca già esistevano, inoltre, metodologie innegabilmente funzionali per la costituzione di isole artificiali mediante il reimpiego di materiale di scarto, totalmente diverse dal metodo qui sfruttato del “produci un cumulo e ricoprilo di terra”. In poco meno di cinque anni, quindi, le insistenti mareggiate della baia iniziarono a portare via la sabbia tanto faticosamente ricollocata, scoprendo, uno dopo l’altro, i vergognosi strati risultanti dai travagliati trascorsi di una simile terra al tempo stesso periferica, eppur centrale della città di New York. Vetri e plastica, soprattutto, perché indeperibili, ma anche ossa e parti di carcasse di tutti quei cavalli che durante l’epoca precedente, si erano sacrificati loro malgrado per dare il nome alla baia in questione.
L’aeroporto Floyd Bennett Field quindi, come è noto, finì progressivamente in disuso dopo la fine della seconda guerra mondiale, a seguito dell’apertura avvenuta nel 1939 del sito precedentemente privato di La Guardia, capace di trasformarsi presto nel centro operativo di tutte le attività commerciali aeree della città. Finalmente del tutto abbandonata, di nome di fatto, l’isola ricadde quindi nella gestione autonoma del Servizio Nazionale Parchi (NPS) diventando quello che viene generalmente considerato la più inquinata di tutte le risorse “naturali” considerate in qualche modo degne di protezione nell’intero territorio nordamericano.
La visione che il tipico newyorchese ha di Barren Island e la Baia del Cavallo Morto è comprensibilmente variabile, benché per molti di coloro che (lietamente) hanno mancato di visitarla in prima persona, essa costituisca in qualche modo un pezzo di storia cittadina molto difficile da sopravvalutare. Dopo tutto, ciò che esistito lasciando dei segni tanto indelebili non potrà mai essere dimenticato, particolarmente per l’opera continuativa di alcuni insegnanti di scuola primaria e secondaria, che attraverso le ultime decadi si sono assunti la responsabilità di far condurre alle proprie scolaresche un lavoro di raccolta e catalogazione dei “reperti” più interessanti della baia, tra cui veri e propri pezzi delle vite di un tempo, quali pantofole, giocattoli, pezzi di giornale e persino dentiere semi-consumate dal sale e dagli elementi. Per altri, artisti del riciclo, queste spiagge hanno invece sostituito l’essenza di un vero e proprio supermarket delle meraviglie, dove trovare materia prima per le loro opere connotata dal sempre evidente fascino di coloro che sono venuti, e andati, tanti anni prima di noi. Mentre non mancano eclettiche frange di amanti della storia, ansiose di preservare la propria eredità, sempre pronte a criticare simili approcci, proprio perché capaci di compromettere lo stato primordiale di un così sterminato cumulo di spazzatura, in qualche modo “prezioso” o “insostituibile” per tutti coloro che abitano le chiassose sponde superstiti dell’antica città.
E poi lo dice il classico aforisma: “La spazzatura di molti è il tesoro di qualcuno”. Purché non prenda l’iniziativa di emergere, in maniera del tutto inaspettata, presso i recessi di un legittimo vicinato. L’uomo non può certo privarsi a comando delle proprie capacità olfattive. E la candida ossatura di un cavallo che ormai corre in distanti pascoli, se pur necessario, vorremmo incontrarla soltanto in macelleria.