Non c’è propriamente terrore, negli occhi e nella voce di Betsy Greenhalgh di Clarborough, pittoresca comunità di circa 1.000 abitanti nella zona centrale d’Inghilterra, mentre descrive l’improbabile esperienza vissuta verso le quattro di notte di una manciata di giorni a questa parte. Semplicemente troppo pragmatica, ed affine alla natura in qualsivoglia aspetto, dà l’impressione di essere col suo accento campagnolo, mentre narra di come lei, suo marito e il nipote, assunto temporaneamente il ruolo di Guardiani del regno degli Uomini in un racconto del fantastico contemporaneo, si sono trovati impugnare grandi assi di legno, al fine di scacciare una mostruosa creatura scaturita dagli incubi che accomunano adulti, anziani e bambini. Il ringhiante, nerboruto, saettante mannaro che minacciava, con fare famelico, i due beniamini quadrupedi di famiglia, il pony Peaches e la capra Betty, mentre il primo tentava disperatamente di frapporre i suoi forti zoccoli tra la minaccia e la barbuta amica, semplicemente troppo piccola per resistere agli assalti dell’intruso penetrato (accidentalmente?) nell’amato cortile. “Ci hanno detto che appartiene a una coppia di vicini, che ne avevano adottati alcuni sottratti al commercio illegale sul suolo britannico. Ed ora, un maschio e una femmina sono scappati!” Ha quindi spiegato la donna al Daily Mail. “A quanto ci hanno detto, la polizia sta per schierare droni, sensori termici e attrezzatura simile per tentare in qualche modo di recuperarli.”
Strano accostamento di suggestioni. Poiché nei suoi paesi d’origine, difficilmente il Nyctereutes procyonoides, mangut o tanuki che dir si voglia, diretto discendente dei canidi del Miocene, che verso la fine della loro epoca migrarono dal Nord America verso l’Asia Orientale attraverso l’antico ponte di terra che attraversava lo stretto di Bering, ponendo le basi d’infinite complesse, spaventose e talvolta buffe leggende. In modo particolare lungo l’intero estendersi del territorio giapponese, dove quello che in tempi moderni viene chiamato talvolta “cane-procione” (pur non essendo, nei fatti, né l’una né l’altra cosa) si è trasformato nei secoli in un personaggio folkloristico di primissimo piano, secondo soltanto alla volpe per la quantità, e qualità, dei dispetti compiuti ai danni dei suoi conviventi bipedi fuori e dentro le grandi città appartenute al popolo dei samurai.
Ma c’è ben poco a cui il coraggio, e l’abilità nel maneggiare assi di legno o taglienti katana, può effettivamente servire allo scopo di scacciare uno di questi animali nel momento in cui la carenza di cibo lo ha reso famelico, cancellando in lui ogni presupposto di buon vicinato. Soprattutto nel caso di creature, come quelle sfuggite nel territorio britannico, che provenendo direttamente dalla vita in cattività non hanno avuto modo di apprendere, come i loro cugini giapponesi, l’alto valore nutritivo della spazzatura. Di fronte ai loro istinti carnivori ritrovati, dunque, restano soltanto due possibilità: combattere, oppure rannicchiarsi in un angolo, implorando lo spirito protettivo di una qualche divinità o Kami…
Non viene purtroppo spiegata l’effettiva provenienza dell’intruso notturno il che potrebbe anche costituire un problema viste le notevoli differenze in termini di dimensioni, comportamento ed aggressività. Esistono effettivamente ben cinque diverse sottospecie di tanuki, attestate in un territorio che si estende in modo naturale dal più famoso arcipelago d’Oriente per tutta la Cina, l’Asia Centrale e la Russia, fino alle propaggini orientali dell’Ucraina. Per non parlare delle numerose popolazioni isolate, introdotte accidentalmente dall’uomo in paesi europei come la Germania, l’Estonia, la Finlandia e la Svezia, dove occasionalmente le autorità civili devono organizzare cacce sistematiche come quella iniziata in questi giorni a Clarborough, nella speranza di riuscire a evitare problematiche conseguenze per la fauna e gli animali domestici trasformatisi in potenziali spuntini. Occorrerà a questo punto parlare in maniera leggermente più approfondita del perché, e come, il Nyctereutes procyonoides possa costituire un rischio anche per creature maggiormente imponenti di lui, inclusi inerentemente i vulnerabili e sempre preziosi bambini umani. Questo canide onnivoro, dalla dentizione alquanto acuminata, condivide in effetti ben poche caratteristiche con il procione americano (Procyon lotor) cui viene accomunato in maniera convenzionale pur appartenendo a una famiglia totalmente distinta dell’ordine Carnivora, per la corrispondenza della mascherina nera che gli circonda gli occhi, benché la coda sia molto più piccola e priva delle caratteristiche strisce bianche e nere. Mancano del tutto, inoltre, le sofisticate “manine” usate da tali animali per maneggiare con la massima cura il cibo, dopo averle opportunamente ammorbidite mediante l’impiego d’acqua, in un gesto altamente caratteristico di tale specie. Il mangut, generalmente parlando, si presenta con delle dimensioni molto maggiori rispetto al collega presunto, che possono raggiungere una lunghezza di 71 cm coda inclusa, paragonabile a quella dei più massicci esemplari di volpe eurasiatica, con cui condividono occasionalmente le abitudini marcatamente predatorie. Il peso, nel frattempo, può variare in maniera notevole in base alla stagione, data l’abitudine di questi animali, molto rara tra i canidi, di accumulare risorse prima di ritirarsi all’inizio di un vero e proprio letargo nel corso dei lunghi mesi invernali. Fa eccezione in questo, almeno in parte, proprio la varietà giapponese più piccola (Nyctereutes procyonoides viverrinus) e per la quale non a caso la divisione canidi dello IUCN sta chiedendo da tempo la definizione tassonomica di una specie completamente distinta in forza della sua minore tendenza ad attaccare altri animali, caratteristiche genetiche inerenti e la dieta composta nella maggior parte di frutta, verdure e radici, senza tuttavia ottenere una risposta di tipo positivo dal mondo accademico. Eppure nessuno potrebbe dubitare, per il ruolo posseduto nel ricco repertorio di racconti ispirati alle sue molte peripezie, che il tanuki più propriamente detto possieda un’indole largamente bonaria, assumendo spesso il ruolo di essere dispettoso, degno di poca fiducia eppure (quasi) mai crudele, a differenza dell’altro animale mutaforma del leggendario nipponico, la spietata e talvolta causa di vere e proprie catastrofi, kitsune (volpe).
Spesso usato come simbolo apotropaico particolarmente nell’ambito commerciale, un po’ come l’altra figura tradizionale del maneki-neko (il famoso gatto “che fa ciao con la manina”) tale creatura risulta associata in patria primariamente a un particolare tipo di statuetta prodotta tradizionalmente nella città di Shigaraki, nella parte centro-meridionale dell’isola principale dello Honshu, che lo rappresenta con buffi lineamenti degni di un cartone animato, sacchetti di soldi in mano e due paia di bulbose “gambe” che ad un’analisi più approfondita, si rivelano effettivamente voler rappresentare gli enormi testicoli dell’animale. Tale associazione concettuale ed artistica nei confronti del tanuki, che lo vedono come il possessore di uno scroto notoriamente enorme, sembrerebbero aver preso forma durante l’epoca Edo, quando proprio tale parte delle pregiate pelli prodotte a partire da simili creature veniva usata per cucire dei pratici borsellini da legare alla cintola, mentre intere generazioni di fabbri dell’area di Kanazawa vantavano l’eccezionale efficienza di tale componente anatomico nell’assisterli durante la fabbricazione della loro rinomata foglia d’oro, proteggendo e isolando il prezioso metallo dai colpi del maglio di lavorazione. Leggenda, questa, ulteriormente alimentata dall’opera di intere generazioni di artisti xilografici (su tutti, Utagawa Kuniyoshi) che ne fecero il personaggio principale di molteplici situazioni bizzarre, in cui i testicoli venivano usati come vesti, parasole o persino imbarcazioni, da un’intera società di esseri apparentemente dediti a una vita praticamente indistinguibile da quella degli umani.
Perciò letteralmente infinite sono le storie del mitico tanuki, falsario capace di trasformare le foglie in denaro, trasformarsi in un venditore per prendere i soldi del viandante, prima di rivelare il suo vero aspetto e fuggire nella foresta, o ancora presentarsi come ultimo nonché giustificato baluardo di una natura in difficoltà, come nel famoso film a cartoni animati di Hayao Miyazaki, Pom Poko (1994) in cui un intero clan di questi animali deve proteggere l’avìta dimora dalle spietate mire di un progetto di espansione tokyoita.
Ma simili conoscenze filologiche, per quanto approfondite, a ben poco possono servire quando ci si trova a frapporsi, nelle profondità della notte, tra l’essere provenuto chissà da dove e l’inappropriato spuntino di un’amorevole capra di famiglia. Poiché non si può combattere la bestia senza evocarne, almeno in parte, lo stesso temibile spirito che costituisce una parte spesso dimenticata della nostra eredità. Per trasformarsi in qualcosa di profondamente diverso dal quotidiano, almeno per qualche attimo. Come i protagonisti col bastone di un qualche dramma da palcoscenico del kabuki, o un supereroe senza volto dei telefilm sentai.