Il potente veicolo fuoristrada in grado di trasportare fino a 10, 15 turisti sembra frenare improvvisamente, avendo raggiunto la sommità del sentiero che conduce fino al famoso panorama del monte Gurupoka. La guida c’invita quindi, con gesto magniloquente, ad avvicinarci tutti al grosso sportello laterale, valico capace di condurci verso il vasto panorama promesso. Eppure, è mai possibile? Nello sguardo dell’uomo sembra figurare l’espressione e lo strano sorriso di colui che mantiene un segreto, di gran lunga troppo inopportuno per essere condiviso coi presenti. Dopo un attimo d’esitazione, scendo anch’io sul suolo sterrato, in mezzo ad una notevole macchia di felci mamaku, l’arbusto dalla forma paragonabile ad una palma altresì detto felce nera (Cyathea medullaris). Ma non faccio in tempo ad avvicinarmi al bordo del baratro al di là di una simile finestra naturale, che ai margini del campo visivo scorgo un inqualificabile movimento. Il quale poco a poco, si trasforma nella sagoma di una persona, con la pelle tinta di bianco. O meglio quella che potrebbe anche esserlo sotto ogni punto di vista, fatta eccezione per l’enorme testa cornuta, dai lineamenti appena visibili paragonabili a quelli di un gorilla, le zanne prominenti prelevate direttamente dalla carcassa di un cinghiale. Un dettaglio che mi sarebbe probabilmente sfuggito, nella penombra della foresta, se non fosse stato per il lieve rumore prodotto dalle due grandi foglie che costui, per motivi tutt’altro che chiari, agita rumorosamente su e giù, fino all’altezza delle spalle. Si tratta di una maschera, ovviamente, o come appare fin troppo evidente nel giro di pochi secondi, la prima di una pluralità di simili orpelli. Altre figure si affiancano infatti alla prima con una strana andatura ritmica e cadenzata, tutte evidentemente armate: lì un arciere col dardo pronto ad essere scagliato al nostro indirizzo, in opposizione al guerriero dotato di preoccupante lancia dalla punta presumibilmente avvelenata…. A chiudere la fila, un energumeno con la mazza, ricavata direttamente da quella che sembrerebbe essere la tibia di un grosso e non meglio definito animale. Da un rapido conteggio dei nostri assalitori, concludo che debba trattarsi di una quantità grosso modo equivalente a quella dei turisti presenti, ciascuno altrettanto drammaticamente e letteralmente impreparato all’incontro. Ma quando mi volto per avvisarli, scorgo una scena del tutto inaspettata: la coppia di anziani viaggiatori giapponesi con cui avevo conversato amabilmente durante la trasferta che stringono in mano le proprie macchine fotografiche, con un ampio sorriso in volto. “Sono loro, sono arrivati!” Gridano in un inglese dal forte accento: “Gli uomini del fango hanno fame, e stanno per cucinarci nel pentolone!”
Cos’è dopo tutto, il terrore? Nient’altro che un apostrofo insanguinato tra le parole “ti” ed “odio”, un qualcosa che nasce dal fondamentale senso di colpa per aver fatto, detto o prodotto una situazione in qualche modo inopportuna. E gli abitanti dei dintorni del villaggio di Goroka presso le rive del fiume Asaro, nella provincia delle Highlands Orientali della remota isola della Papua Nuova Guinea non hanno mai, per loro e per nostra fortuna, avuto ragione di temere le navi provenienti dalle masse continentali d’Oriente ed Occidente. Ragion per cui, nell’evoluzione della loro cultura contemporanea, l’antica metodologia degli accesi conflitti tribali un tempo costati la vita ad una quantità innumerevole di connazionali è stata trasformata in una sorta di spettacolo truce, usato per favorire il turismo ed incrementare, nel quotidiano, i fondi disponibili per garantirsi una ragionevole dose di comodità moderne. Essendo questa una tribù che si affida esclusivamente alla trasmissione tra le generazioni in forma orale, ad ogni modo, esistono diverse storie sull’origine dell’insolita tenuta da guerra (se così vogliamo chiamarla) tutte riconducibili, grosso modo, alla stessa vicenda: il momento indefinito nel tempo a seguito del quale gli uomini più combattivi della tribù, sconfitti durante un sanguinoso conflitto coi loro vicini, si ritirarono per cercare rifugio in prossimità del fiume, dove iniziarono a pianificare la propria vendetta. Quando uscirono quindi al calare della sera, erano completamente ricoperti dal fango chiaro dell’Asaro, che per qualche ragione veniva per di più ritenuto essere velenoso. Inoltre avevano il proprio volto con delle maschere spaventose, create riscaldando l’argilla sul fuoco nella profondità della notte, capaci d’incutere il terrore nel cuore dei propri nemici. Fatto ritorno al villaggio usurpato, quindi, la loro semplice vista risultò talmente terrificante che i vincitori non soltanto si ritirarono, sentendo addirittura il bisogno di mettere in atto una cerimonia per scacciare gli spiriti nella speranza di non incontrarli mai più. Ma da quel momento, così prosegue la leggenda, tutti i nemici degli uomini del fango avrebbero conosciuto il pericolo d’incorrere nella loro ira, strettamente interconnessa con la terribile apparizione dei morti viventi oltre i confini della loro terra.
Ora tutto ciò non può che essere ricondotto, incidentalmente, a dell’ottimo marketing contemporaneo: ci sono, in effetti, tutti gli stereotipi che il moderno abitatore dei contesti urbani ama vedere associati ai suoi simili rimasti legati a stili di vita primordiali: violenza, magia, ingegno… Qualcosa di quasi troppo perfetto, e schematico, per essere vero. Ragion per cui nel mondo accademico, da lungo tempo ormai, sono state cercate spiegazioni alternative tra cui la più accreditata, allo stato dei fatti attuali, resta quella degli antropologi danesi Ton Otto e Robert J Verloop che tentando di sfatare l’occulto mistero, fanno risalire la tradizione a un periodo grosso modo corrispondente agli anni ’50 dello scorso secolo…
Il che non dovrebbe, almeno in linea di principio, togliere ogni residuo fascino antico alla messinscena. Gli stessi due autori dello studio del 1996, intitolato “The Asaro Mudmen: Local Property, Public Culture?” Fanno effettivamente risalire i suoi metodi a quelli della temuta bakime, o vendetta di sangue. Messa in atto da un membro delle tribù di una significativa parte della Papua Nuova Guinea inclusi gli uomini dell’Asaro, per vendicare un torto subìto, reale o presunto, ai danni dei membri della sua grande famiglia arbitrariamente allargata, allo scopo d’includere chiunque condividesse con lui le catture delle battute di caccia e il pasto comunale del villaggio, spesso cotto mediante la popolare metodologia del mumu (una buca scavata nel terreno e riempita di pietre incandescenti). Un atto che prevedeva, contrariamente alle battaglie propriamente dette, che l’agente delittuoso coprisse attentamente i suoi lineamenti, al fine d’evitare problematiche e pressoché assicurate contro-ritorsioni ai danni di se stesso o le persone a lui care. Ora c’erano vari modi, persino nelle profondità della giungla, per assicurarsi l’anonimato, ma la più utilizzata prevedeva la costruzione del cappuccio girituwai, costruito con una struttura in legno ricoperta d’argilla, caratterizzata dall’unico tratto distintivo di due fori per gli occhi. La quale tuttavia attraverso gli anni, con l’obiettivo di spaventare le proprie vittime, assunse lineamenti via via più terribili e spaventosi. La preoccupante immagine di quello che avrebbe successivamente assunto il nome di holosa, o fantasma, include una serie d’artifici chiaramente frutto di menti assai creative, tra cui l’intento di richiamarsi agli spiriti degli antenati presentandosi come una manifestazione rediviva dei loro stessi corpi, dall’andatura simile a quella del classico zombie (costui si, una figura culturalmente trasversale) e il già citato gesto di farsi aria con un paio di foglie, presumibilmente utilizzato per scacciare via le invisibili mosche attratte dalla propria stessa marcescente presenza.
In epoca più recente quindi, con il severo divieto in materia di conflitti tribali imposto dalle stringenti regole della convivenza civile, le maschere degli Asaro hanno subito una serie di derive nella funzione e l’aspetto esteriore, tendendo a presentarsi con espressioni talvolta più buffe che spaventose, venendo costruite integralmente in fragile argilla e risultando quindi molto più adatte all’impiego situazionale nel corso delle emblematiche danze Sio Sio e Moka Moka, tra le principali cerimonie esternalizzate allo scopo di affascinare, e per quanto possibile attrarre i turisti.
Nel ricercare un’effettiva origine della pratica oggi considerata, a torto o a ragione, antichissima, gli antropologi danesi quindi proseguono identificando la figura di Ruipo Okoroho, nonno dell’allora capo del villaggio, che nel 1957 avrebbe elaborato una rappresentazione già corrispondente per sommi capi a quella dei nostri giorni allo scopo di partecipare con i propri coabitanti al Raduno Agricolo delle Higlands, un prestigioso evento annuale capace di coinvolgere i membri di molte creative, distintive tribù dei dintorni. Occasione della quale, in maniera pressoché corrispondente all’antica leggenda, gli spettatori d’occasione avrebbero effettivamente subìto uno spavento tale da giustificare la propria ritirata, mettendo anticipatamente fine all’adorata kermesse. Un fatto, nel presente caso, decisamente più documentato (benché in maniera comunque orale) della leggenda “ufficiale” ed a voler essere sinceri, altrettanto se non più plausibile della presunta accensione di una pitagorica lampadina nel momento della più crudele necessità belligerante. Ciò detto, il tenore per lo più pubblicitario e post-moderno delle pratiche degli Asari, ormai da tempo scevre di alcun significato religioso ancorché folkloristico, risulta oggi piuttosto evidente, con i frequenti tour e le escursioni effettuate nei mesi della maggior percorribilità turistica, tra l’entusiasmo e il presunto terrore generale. Coronati, assai opportunamente, da pranzi festosi, laboratori artistici e vere e proprie competizioni moderne di arcerìa.
Il che, risulta del tutto innegabile, può avere uno tra due possibili meriti: quello di preservare, piuttosto che aver creato, un possente legame col mondo degli spiriti trascendentali e le più innate credenze universali dell’uomo. Cosa dovremmo, dunque, presumere di criticare? Cosa bollare col nome inopportuno d’inganno ai danni dei turisti più sprovveduti? Oltre le vastità immisurabili dell’Oceano, dietro le coste dorate, sotto l’ombra della montagna e in presenza del suono del fiume un QUALCOSA si agita ancora. Ed è nell’innata capacità d’interfacciarsi ad essa, fondamentalmente, il valore ultimo del nostro viaggiare.