In quel fatidico 8 gennaio 2007, colui che sarebbe stato definito un profeta salì sul palco del Moscone Convention Center di San Francisco, indossando un paio di jeans e il familiare golf nero a collo alto. Il pubblico, trattenendo il fiato, sapeva che stava per succedere qualcosa di trascendentale. Dopo la breve introduzione celebrativa di rito, Steve Jobs tirò fuori dalla sua tasca un misterioso oggetto rettangolare. “Bene, oggi stiamo per presentare tre prodotti senza precedenti. Il primo è un iPod con controlli touchscreen.” Un sussurro iniziò a correre tra la gente. “Il secondo, un innovativo sistema per la comunicazione su Internet.” Strilli sottovoce e timidi accenni a un applauso anticipato. “Il terzo, un rivoluzionario telefono cellulare” I giornalisti del mondo tecnologico che trattengono il fiato, con le nocche sbiancate per la forza con cui stringevano i braccioli delle poltrone. “… Però questi non sono tre dispositivi separati, bensì uno soltanto. Lo chiameremo… iPhone!”. Silenzio, per un interminabile attimo ricco di pathos. Quindi un suono unico che monta dai bordi della platea, per poi diffondersi in tutte le direzioni allo stesso tempo. Un boato a metà tra voci che si sovrappongono, sussulti eccitati, ululati lupeschi e il chiacchiericcio indistinto di una vasta famiglia di scimpanzé. Ciò che la gente in quel primissimo momento non poteva ancora comprendele, tuttavia, è che la forza epocale del nuovo cavallo di battaglia di Apple non risiedeva tanto nella miniaturizzazione e l’integrazione tecnologica, aspetti nei quali risultava inerentemente simile a molti dei suoi rivali, quanto nel rivoluzionario funzionamento della sua interfaccia: con icone grandi non più concepite per essere usate con il pennino, quanto piuttosto perfette da toccare coi polpastrelli, spostare, far scorrere sopra, sotto e di lato. Un’approccio alla gestione delle funzionalità digitali talmente facile che persino un bambino avrebbe saputo usarlo istintivamente. Un bambino, oppure…
Da quel momento e come sappiamo fin troppo bene, l’universo dei dispositivi informatici personali fu cambiato per sempre. E in un certo senso, dovremmo affermare che l’altro ieri ha subito la stessa mutazione anche nel mondo di quegli animali particolarmente intelligenti che ci assomigliano, nella composizione del loro codice genetico, fino a una percentuale di un clamoroso 96%. Ebbene nella maggior parte dei casi e fatta eccezione per esigenze poetiche, nessuno sarebbe propenso ad affermare di essere tanto simile a uno scimpanzé. Tranne in casi come quello comparso ieri sulla pagina Instagram del naturalista e proprietario dello zoo/riserva di Myrtle Beach anche detto T.I.G.E.R.S. (The Institute of the Greatly Endangered and Rare Species) Bhagavan “Doc” Antle, in cui l’esemplare maschio di nome Sugriva appariva intento a maneggiare con straordinaria maestria un odierno discendente di quel dispositivo con schermo che aprì la strada ai moderni smartphone, mentre scorre agilmente e quasi “per caso” i contenuti sul profilo di un altro promotore della conservazione animale, l’influencer statunitense Mike Holston. Ecco dunque una creatura animale, dotata di due mani e altrettanti pollici opponibili, che sembra perfettamente a suo agio nell’impiegare un dispositivo concepito per un umano, anch’esso dotato di due mani ed un pollice opponibile. Niente di così strano, in effetti, se non andassimo ad aggiungere il modo in cui la scimmia sembra comprendere quello che vede aprendo le foto più interessanti, ponderare per qualche secondo il loro significato, quindi premere back per tornare alla pagina principale. Con una sveltezza ed assenza di errori che in molti si sono dimostrati pronti a giudicare persino superiore a quella di un cittadino anziano dell’odierno villaggio informatico, ovvero uno di quegli individui nati, per sua sfortuna, ancor prima di quel vasto crepaccio che viene normalmente chiamato il digital divide. Ora io personalmente ho una teoria sullo svolgersi effettivo di una così sorprendente sequenza, ma prima di esporla, preferirei approfondire un attimo le ragioni e modalità del suo contesto. In merito al quale, come spesso capita, non manca un nutrito coro di accesi detrattori…
Il più lungo ed elaborato articolo che esterna un’interpretazione negativa della scena compare in meno di 24 ore sul blog di Jane Goodall, famosa etologa inglese che moltissimo ha fatto, nel corso della sua lunga carriera, per far conoscere e preservare l’eccezionale consorzio della specie scientificamente nota come Pan troglodytes, lo scimpanzé. Una vera scienziata dunque per cui l’operoso industriarsi, tutt’altro che disinteressato, di chi usa quotidianamente simili animali (anche) per garantirsi un mezzo di sostentamento finanziario non può che costituire un fastidio notevole, al punto da dover semplicemente far sentire al mondo la propria voce. E “Sono molto delusa…” Ha esordito lei, proseguendo con una puntuale ed articolata descrizione dei molti punti negativi che possono derivare da un simile spettacolo mediatico a vantaggio del vasto pubblico del Web. Poiché si svolge, in primo luogo, all’interno di quella che sembra a pieno titolo un’abitazione urbana, promuovendo ulteriormente lo stereotipo altamente problematico che gli scimpanzé possano essere addomesticati, fatto assolutamente non vero. Perché mostra uomini e scimpanzé a stretto contatto, una situazione molto spesso dall’alto grado di pericolo potenziale, trattandosi di animali che restano comunque selvatici e molto più forti di quanto la gente tenda a pensare. Per la maniera scorretta in cui il primate viene indotto ad utilizzare uno strumento senza che arrivi prima a comprenderlo da solo. Ed per concludere con un fattore tutt’altro che di secondo piano, a causa di una generale avversione nei confronti d’istituzioni come lo zoo di Myrtle Beach, in totale e innegabile opposizione al suo lavoro compiuto in giro per il mondo attraverso alcune delle più vaste riserve naturali del globo. Una posizione dai molti aspetti condivisibili almeno in potenza, dunque, che ha ricevuto ulteriore sostegno da un articolo della rivista Motherboard, oltre a varie manifestazioni di sostegno sui social media da parte di scienziati, etologi e primatologi del mondo accademico. A un simile movimento non ha quindi tardato a farsi sentire lo stesso Doc Antle, proprietario dello scimpanzé Sugriva, che interrogato dalla prestigiosa testata web si è affrettato a ricordare al suo pubblico come la scimmia in questione, assieme a svariate sue simili comunque non mostrate nel video, viva in “Un habitat multi-piano di più di un acro con tunnel, alberi da cui dondolarsi, tre case, televisioni ed aria condizionata.”
Il che sarebbe assolutamente sufficiente a mettere a tacere ogni potenziale obiezione… Se si trattasse di un cucciolo d’umano.
Che cosa capiva, dunque, lo scimpanzé col nome prelevato direttamente dall’epica indiana del Ramayana (Sugriva era il sovrano del regno scimmiesco di Kishkindha) in quello scorrere sistematico del profilo di uno dei suoi più grandi fan? Si accettano ipotesi: chi afferma che stesse semplicemente imitando i gesti del suo proprietario. Questo non spiega, tuttavia, come faccia a inviare gli input allo smartphone in una così lunga sequenza priva d’errori, comparabile a quella di un utilizzatore esperto e al decisamente dal nostro lato del già citato digital divide. Né il video sembrerebbe costituire, come alcuni hanno comunque ipotizzato, un montaggio di più sequenze in qualche modo alterate, per far sembrare il primate molto più habilis di quanto effettivamente è. E dire che i precedenti non mancano, come quel famoso video in cui uno scimpanzé costruiva una torre mediante l’impiego di grossi blocchi in stile LEGO, esibendo chiare doti di creatività avanzata, finché non ci rendemmo conto che il video era stato effettivamente mandato al contrario, con la scimmia che stava soltanto SMONTANDO il notevole prodotto “finale”. Detto questo, non è affatto impossibile che un appartenente alla genìa dei Pan troglodytes riesca ad utilizzare un interfaccia come quella dei moderni dispositivi touch, concepita secondo quella particolare branca della programmazione che viene definita in inglese Haptics (tattile) in quanto si propone di riprodurre digitalmente la stessa maniera in cui interagiamo quotidianamente con oggetti dotati di una loro fisicità. Ad un livello di astrazione pienamente raggiungibile, per quanto già sapevamo, da uno scimpanzé di intelligenza medio-alta per la sua specie. Ma basta osservare una diversa scimmia mentre tenta di giocare ad Angry Birds nel secondo video proposto in questo articolo, per vedere l’illusione di competenza che crolla come un castello di carte: in mancanza dell’azione/reazione diretta, secondo i chiari crismi definiti per la prima volta con nonchalance su quel palco ultra-generazionale di San Francisco, l’animale non possiede semplicemente i processi mentali necessari a comprendere il disegno di una fionda che scaglia uccelli contro i loro nemici porcini. Un qualcosa che qualunque bambino umano capirebbe pressoché istantaneamente ancor prima di qualsivoglia griglia fotografica, per il bagaglio di cognizioni acquisite precedentemente e le rapide connessioni effettive del nostro apparato neuronale.
Più che un traguardo straordinario della scienza comportamentale, dunque, chiamerei la scena dello scimpanzé di Antle che usa Instagram l’occasione di comprendere finalmente qualcosa che forse preferivamo ignorare. Ovvero che le scimmie ci assomigliano, non tanto perché discendiamo da loro… Bensì per il semplice fatto che un giorno, nel nostro modo di relazionarci alle macchine, potremmo finire per tornare a uno stato primordiale che annulla il vantaggio di cui andiamo tanto fieri, acquisito con fatica nei lunghi secoli della nostra, pur sempre vulnerabile, Civiltà.