Avete mai incontrato una persona la cui voce sembrasse istintivamente quella di qualcun altro? Individui bassi con un tono da baritono, giganti che si esprimono in falsetto, anziani che si esprimono col tono, e qualche volta le preferenze lessicali, di un alunno di terza liceo? In un certo senso, avventurarsi nelle giungle di Malesia, Indonesia e Thailandia può dar adito ad un esperienza di questo tipo. Che si prefigura molto spesso grazie all’insistente ripetersi di un suono distante. Un canto, un lamento e a voler essere precisi, l’espressione in rima di una sorta di poesia. Che oscilla sopra e sotto, sopra e sotto quella nota inesplicabile che potremmo definire la frequenza di un possente gracidio. “Espressione generica di fastidio!” potrebbe a questo punto rendere palese l’ipotetico turista impreparato, subito aggiungendo “Apprezzamento generico sul valore del silenzio” mentre la sua guida, spalancando leggermente gli occhi, estende il dito della mano ad indicare verso l’alto. Un’ombra nera si fa largo in mezzo agli alberi. Non è un aereo, né un uccello, anche se si muove alla velocità di Superman: circa 40-50 Km/h; adesso 30; adesso 20, grazie al supremo sistema di frenata concesso al metodo della brachiazione (salto di ramo in ramo); ora si trasforma, da una sagoma sfocata, in quello che realmente è. L’essere peloso alto all’incirca un metro, senza coda, dal peso di 14-17 Kg, con le braccia lunghe molto più del corpo e un’espressione pensierosa. Grande o media scimmia, potrebbero chiamarla i non iniziati. Mentre gli esperti sanno molto bene, che si tratta del gibbone di Siamang (Symphalangus syndactylus) un tipico abitante (quasi) a rischio di estinzione di questi luoghi. Che apre lentamente la sua bocca, mentre lo strano palloncino grigiastro che si trova incorporato sotto il mento assume proporzioni comparabili a quelle della testa di un bambino. Ed è allora, senza saper leggere ne scrivere, che lo spettatore medio tende portare istintivamente le proprie mani in corrispondenza dei padiglioni auricolari…
Il verso di quello che viene comunemente italianizzato in siamango, da un appellativo in lingua malese di etimologia incerta, è stato decritto in molti modi: stridulo, enfatico, ansiogeno, penetrante. Il che permette di comprendere istantaneamente il suo scopo, di essere udito a svariate centinaia di metri di distanza, trattandosi essenzialmente di un metodo efficace nella marcatura del territorio. Quello spazio, o terreno di foraggiamento primariamente erbivoro che dir si voglia, a cui ciascuna famiglia di queste creature sceglie di affidarsi per definire i confini effettivi della propria esistenza. Diversamente da altri primati più famosi in Occidente, infatti, il siamango non vive in grandi comunità ma piccoli e più dinamici gruppi di quattro elementi al massimo, tra cui maschio e femmina dominante, accompagnati dai loro eventuali cuccioli o talvolta uno/due esemplari sub-adulti. Eppur nonostante questo, riescono a vivere una vita sociale piuttosto intensa e sofisticata, grazie al telefono senza fili della loro voce, in grado di trasmettere una straordinaria varietà di segnali, quasi paragonabili a quelli di un rudimentale linguaggio umano.
Nel nostro scenario ipotetico di una passeggiata nella giungla, va pur detto, la presenza a distanza chiaramente visibile di una o più di queste creature dovrebbe idealmente suscitare un senso di disagio. Questo perché il gibbone, come dicevamo, è geloso della sua privacy ed ha l’abitudine, sopratutto nei confronti intraspecie, di smettere a un certo punto di cantare e passare alle cosiddette vie di fatto. E benché questo componente particolarmente grosso della famiglia degli Hylobatidae possa vantare al massimo l’imponenza di un bambino delle elementari, resta pur sempre una creatura selvatica, dotata di forza sufficiente a balzare fino ad 8-10 metri di distanza, a patto di avere a disposizione un ramo abbastanza alto da cui catapultarsi verso l’eventuale bersaglio. Questo grazie, sopratutto, alla particolare articolazione di cui sono dotati i suoi polsi, paragonabile a quella di un vero e proprio giunto meccanico a sfera. Il che significa, essenzialmente, che vantano una mobilità su entrambi gli assi decisamente superiore alla nostra, riducendo conseguentemente lo stress richiesto durante simili acrobazie alle spalle e alla schiena. Ciononostante, il gibbone di Siamang è notoriamente fin troppo spericolato durante le proprie evoluzioni, andando talvolta incontro a infortuni di variabile entità. Continuando ad analizzare le sue particolarità anatomiche, dunque, non si può evitar menzione del modo in cui il secondo e il terzo dito del piede sono interconnessi da una sottile membrana di pelle, retaggio ereditario dalla funzione incerta, che è anche l’origine del nome scientifico dell’animale precedentemente espresso, proveniente direttamente dal greco sun-, “unite” + daktulos, “dita”.
Ecologicamente parlando, nonostante le sue notevoli doti di sopravvivenza, la scimmia che gracida non ha nemici (fa eccezione, ovviamente, l’uomo) e benché sia stato ipotizzato che particolari uccelli rapaci, e qualche volta serpenti, possano costituire un rischio per i suoi piccoli, non esistono casualità documentate scientificamente di predazione. Né del resto essa conduce un’esistenza primariamente carnivora, pur non disdegnando la cattura occasionale di piccoli mammiferi o grossi insetti, preferendo ad essi l’alternativa di foglie e frutti, particolarmente fichi di cui risulta straordinariamente ghiotta, sostituendo lo stereotipo prototipico della banana. Questa particolare specie di gibbone, d’altra parte, è solita consumare una quantità maggiore di foglie rispetto agli altri esponenti della sua famiglia, rispecchiando la cognizione secondo cui animali di dimensioni più grandi risultano in grado di metabolizzare più efficacemente la materia vegetale di base. Conducendo in tal modo un’esistenza pacifica, in cui ci si riposa per almeno il 50% delle ore diurne, fatta eccezione per quei momenti in cui occorre rinforzare, in maniera chiaramente udibile, i fondamentali confini del territorio. Un’operazione che tende a coinvolgere, nella maggior parte dei casi, almeno due se non tutti i membri del nucleo familiare inclusi i cuccioli, pronti ad unire il proprio scampanante ululato a quello della sentinella che ha scovato l’intruso o ancor più frequentemente ogni mattina tra le ore 8:00 e le 10:00, come misura preventiva nei confronti d’invasioni possibili o immaginarie. Come una sorta di canto del gallo posto lassù, in alto, tra i rami attraverso cui filtra il chiaro sole della foresta.
Detto questo, l’unica presenza che queste scimmie debbano effettivamente temere è quella di una ben diversa creatura bipede, notoriamente abituata ad abbattere spietatamente i fondamentali recessi del suo territorio, al fine di coltivarli con qualcosa di maggiormente “utile” all’economia locale. Sapete tutti ciò di cui sto parlando, vero? Si tratta delle palme da olio. Nel contempo, il bracconaggio è un problema costante, con esemplari non tanto uccisi per finalità alimentari (la consumazione di carne di scimmia non è diffusa in questa parte del Sud-Est Asiatico) quanto per alimentare il commercio illegale di animali domestici, benché mi risulti difficile immaginare chi abbia il desiderio di mettersi a casa l’equivalente arboricolo di una sirena da nebbia. E come intenda, incidentalmente, nasconderlo ai propri più prossimi vicini. Causando il reiterato verificarsi di una circostanza particolarmente crudele, per cui i cacciatori di frodo uccidono spietatamente la madre prima di prendersi i cuccioli, al fine di prevenire la sua risposta immediatamente (e comprensibilmente) aggressiva nei loro confronti.
Non credo possa sorprendere nessuno, giunti a questo punto, la rivelazione di come il nostro amico gibbone canterino sia attualmente classificato al grado “minacciato” dall’indice internazionale dello IUCN, ente che si preoccupa di curare l’elenco delle specie che potrebbero presto scomparire dall’albo delle generazioni future. Un dubbio onore non ancora esteso alle altre tre specie biologicamente confinanti di scimmia, almeno per ora. Il che potrebbe giungere a costituire, fin troppo presto, un problema sistemico anche per la biodiversità dell’ambiente circostante, data la sua importanza ecologica nella mansione di consumare, ed in seguito distribuire in quel modo che ben conosciamo, copiose quantità di semi. Speriamo d’essere infastiditi, quindi, dal suo canto insistente durante le nostre escursioni malesi o nell’isola di Sumatra, ancora per un tempo sufficientemente lungo. E che una simile esperienza non finisca per essere unicamente appannaggio del micro-mondo al di là dei portoni ornati, sovrastati dall’insegna indicativa di un qualche tipo di zoo.
ADDENDUM: a proposito di questo interessante primate, pubblico nuove informazioni appena ottenute dall’amico Nix, che scrive dalla Malesia:
- Our tribe call these “Uaak Uaak” because of the sound it made. The Siamang back in old Borneo had quite some folklore for the Dayak tribes, to fisherman they are a useful allied to warn of crocs lurking nearby, but hated by hunters because the howl always scares game away, the sound tho were mimicked by warriors of the Dayaks as jungle signals, the Iban tribe used the sound as communication during resistance against James Brooke’s troops, and sometimes used to demoralize Brooke’s soldier encampment in jungles where they make the sound surrounding them.
Sarawak Rangers(mostly Dayak) also implement this method against Japanese soldiers and Communists insurgents during war. Bud sadly due to modernization and rapid deforestation, the Siamangs populations shrinks and pushed into the highlands and deep jungle of Borneo.