Il 22 giugno 1941, a esattamente un giorno di distanza di quello in cui, 129 anni prima, Napoleone aveva attraversato il Niemen per dirigere le proprie mire di conquista verso la città di Mosca, le forze tedesche iniziarono il proprio bombardamento d’artiglieria contro alcuni depositi di munizioni e altro matériel sovietico al di là del fiume. Nel contempo, schiere composte da migliaia di panzer varcarono i guadi individuati settimane prima, attraverso una certosina operazione di avanscoperta, e il sibilo terrificante dei bombardieri Stuka accompagnava la loro picchiata verso le basi avanzate di un esercito che non era, e semplicemente non poteva essere ancora pronto a resistere all’ondata di piena dell’Operazione Barbarossa. Ma mentre per quanto concerneva le truppe di terra, i russi riuscivano a difendersi grazie alle postazioni fortificate e l’impiego dei nuovi carri armati, in quantità ridotta ma di assoluta superiorità tecnologica, dei modelli T-34 e KV-1, l’andamento della battaglia nei cieli assumeva tinte decisamente più fosche per loro: i tedeschi a bordo dei loro Messerschmitt Bf 109-E, aerei allo stato dell’arte con potenti motori raffreddati al liquido, ottime capacità di manovra e l’armamento quasi esagerato per l’epoca di due cannoni da 20mm e altrettante mitragliatrici da 7,62, facevano essenzialmente il bello e il cattivo tempo assicurandosi l’assoluta superiorità aerea. Questo almeno finché, dai campi di volo di Mozhalsk e Inyutino, non iniziò a risuonare un suono stranamente familiare. Era il motore M-22 da 450 cavalli del Polikarpov I-26, chiamato “mulo” (ishak) dai suoi piloti connazionali così come i repubblicani della guerra civile spagnola, cinque anni prima, avevano scelto per lui l’appellativo ben più descrittivo di “topo” (rata), in forza della sua forma accorciata, le ali tozze e stondate, la maniera scattosa e imprevedibile di approcciarsi al volo. Un velivolo incredibilmente rivoluzionario, all’epoca del suo primo decollo, come primo esempio di apparecchio dotato di cabina in grado di chiudersi completamente, struttura ibrida in legno e metallo con sostegni a cantilever e persino un carrello retrattile grazie a un cavo, collegato a un sistema a manovella complesso e piuttosto difficile da utilizzare. Detto questo tutti avevano ben chiaro come la metà di una decade, sopratutto nel periodo febbrile di corsa agli armamenti antecedente al secondo conflitto mondiale, potesse anche corrispondere a intere generazioni della storia umana, per quanto i miglioramenti tecnologici sembravano aver reso un simile uccello da guerra drammaticamente obsoleto. E così delle schiere di I-16 che decollarono quel fatidico giorno, per un totale di esattamente 1.635, dopo il trascorrere di 48 ore ne sarebbero rimasti in volo soltanto 937. Questo perché in un combattimento contro il Bf 109-E, più veloce e più armato (l’I-26 più diffuso all’epoca montava soltanto quattro mitragliatrici tipo
ShKAS da 7,62 mm) non c’era molto che un pilota sovietico potesse fare, se non sfruttare la sua manovrabilità orizzontale leggermente superiore (dopo tutto, questi aerei pesavano soltanto 1.490 Kg) e sperare che i tedeschi commettessero errori. Oppure ricorrere a una particolare manovra, che i colonnelli al servizio di Stalin avevano elaborato appositamente per un simile scenario disperato: la cosiddetta “tecnica taran” (ariete) che consisteva nell’urtare intenzionalmente con l’elica la coda degli aerei tedeschi confidando nell’ottima corazzatura del Rata, per avere tempo a sufficienza da paracadutarsi conseguentemente al di qua delle linee alleate. E più di un fiero aviatore venuto dal Centro Europa, pienamente sicuro della superiorità della sua causa ed il potere tecnologico del suo armamento, dovette soccombere al coraggio disperato dei suoi oppositori, a bordo di una reliquia tanto obsoleta eppur temibile, a suo modo. Tutti avevano ben chiaro nella mente, tuttavia, come la battaglia per Mosca sarebbe stato il tramonto del coraggioso piccolo aereo per tanti anni oggetto di amore ed odio da parte dei vertici del partito, ben presto destinato ad essere sostituito dai ben più moderni Yak, Mig e LAGG-3…
La storia del Polikarpov I-16 è una di quelle vicende che possono essersi svolte soltanto in Russia. Uno dei progetti di maggior successo all’epoca della sua messa in opera da parte dell’omonimo ingegnere Nikolai Nikolaevich Polikarpov nato nel 1892, già costruttore tra gli altri del leggendario biplano U-2 (che gli sarebbe sopravvissuto di ben 8 anni, continuando ad essere prodotto fino al 1952) esso nacque non all’interno di un prestigioso bureau finanziato e tenuto in massima considerazione dal governo, bensì sopra i banchi polverosi di una colonia penale, nella quale il formidabile disegnatore di ali era stato confinato assieme alla sua intera equipe su disposizione specifica del compagno Stalin, per la lentezza con cui sembrava rispondere alle pretese di un nuovo aereo da combattimento che potesse imporsi sulla scena europea. Eppur lungi da perdersi d’animo, questo figlio di un religioso della regione di Oryol che aveva anche frequentato per qualche tempo un seminario, si mise in quel drammatico 1933 a lavorare con enfasi per la produzione di due nuovi modelli: il biplano di tipo tradizionale con denominazione I-15 e qualcosa di radicalmente diverso, vagamente ispirato alle nuove tendenze progettuali provenienti dagli Stati Uniti. Ben presto in effetti quello che appariva destinato ad essere chiamato il suo capolavoro venne paragonato al Boeing P-26, sopratutto per la presenza di una cappottatura del motore di tipo NACA (del National Advisory Committee for Aeronautics) in grado d’incrementare le sue prestazioni aerodinamiche, benché l’ispirazione diretta provenisse assai più probabilmente dal velivolo sperimentale da corsa Granville Gee Bee, un’altra vecchia conoscenza di questo blog. Altrettanto pericoloso ed instabile da pilotare, per il baricentro spostato in avanti, la cabina arretrata e le ali piuttosto corte, l’I-16 riscosse tuttavia un immediato successo nella Russia degli anni ’30, in forza della potenza del suo motore, più volte cambiato in meglio, e l’agilità con cui poteva raggiungere la coda di un qualsivoglia biplano convenzionale. Detto ciò, l’aereo acquisì ben presto una reputazione di usabilità pessima, per la scomodità nel salire a bordo e la bassa qualità dei pannelli di vetro usati per la cabina, che aveva inoltre l’abitudine di restare bloccata in posizione di chiusura successivamente a manovre eccessivamente brusche. Ragion per cui molti piloti iniziarono a farla bloccare in posizione aperta, mentre i modelli successivi dell’aereo sarebbero stati prodotti semplicemente privi di tale copertura contro il gelo transiberiano e le intemperie.
La prima occasione di dimostrare al mondo la potenza del nuovo caccia, tuttavia, sarebbe giunta da Occidente ed in particolare durante la già citata guerra civile spagnola, al principio della quale Stalin ne vendette circa 475 esemplari all’armata Repubblicana, che ne fece un uso estremamente efficace contro le forze combinate delle aviazioni tedesca e italiana. Partecipando ad alcune delle battaglie aeree più grandi e decisive fino a quel momento storico, durante le quali un singolo I-16 poteva riuscire ad abbattere anche quattro o cinque biplani di tipo Heinkel He 51 o Fiat C.R.32 della Regia Aeronautica, per poi passare a devastare letteralmente i poderosi bombardieri della serie Junkers Ju (52, 86, 87). Tanto che al termine della guerra, dei “soli” 187 Rata perduti in varie circostanze, ben 62 caddero a causa d’incidenti o errori di manovra, riconfermando l’impressione generale secondo cui l’I-16 costituiva, nei fatti, il peggior nemico nei confronti della sopravvivenza del suo pilota. Ma ulteriori giorno di gloria, ben presto, avrebbero fatto parte della sua storia…
Ulteriori 250 I-16 sarebbero infatti stati forniti, a stretto giro di accordi diplomatici, per contrastare la spietata avanzata dei giapponesi contro la cina del presidente Lin Sen. Durante il conflitto per il territorio mongolo di Khalkhin Gol nel 1939, quindi, versioni migliorate dell’aereo si scontrarono con il temibile Mitsubishi A5M, diretto antenato dell’A6M Zero che tanto avrebbe fatto penare gli americani, successivamente all’attacco a sorpresa di Pearl Harbor di due anni a quella parte. E si trattò, per questa volta almeno, di un conflitto combattuto ad armi pari, con entrambi gli schieramenti disposti a proclamare la propria vittoria nei cieli successivamente all’abbattimento di un numero consistente di aerei nemici. Studi di settore condotti dal governo sovietico, tuttavia, avevano dimostrato come l’aggiunta di armamenti e l’utilizzo di motori sempre più pesanti avesse grandemente compromesso le capacità di volo del fidato mulo delle forze aeree sovietiche, che ben presto avrebbe cessato di occupare una posizione di predominio nei cieli infuocati dei costanti conflitti del ‘900. E all’arrivo dei tedeschi guidati da spregiudicate mire di conquista, come precedentemente narrato, una simile previsione si era già dimostrata in tutta la sua drammatica verità.
Detto questo, doveva esserci qualcosa di agghiacciante nell’affrontare un gruppo di piloti talmente coraggiosi, o così disperati, da usare l’elica dei propri attempati aerei come fosse un’arma, col solo scopo di danneggiare o in qualche modo incapacitare il non-plus ultra con cui il gotha dell’ingegneria tedesca aveva scelto di omaggiare (e al tempo stesso, condannare) il mondo. Lo stesso attimo di momentaneo timore sperimentato dal felino domestico, che stretta all’angolo la sua preda baffuta, scruta con vaga preoccupazione l’affilato splendore di quei piccoli denti affilati. Perché le dimensioni contano, ma non sono sempre indicative di uno stato di forza superiore. Soprattutto rispetto allo spirito, ovvero in determinate circostanze, la convinzione di trovarsi a combattere dal lato giusto della storia. Peccato che fin troppi, nel corso della storia moderna e contemporanea, si siano ritrovati a seguire quel problematico sentiero.